In Val d'Orcia, nei pressi di Pienza, il ritrovamento di alcuni semi fossili confermano una produzione di grano che si perde nella notte dei tempi.
Da recenti ricerche di bio-archeologia, nei pressi di Pienza (Cava Barbieri) sono stati trovati semi fossili di quello che potremmo definire il “progenitore”
dell’attuale grano duro. Questa è una testimonianza a riprova di quella vocazione cerealicola che nella Val d’Orcia si perde nella notte dei tempi. La notizia non stupisce affatto: chiunque abbia attraversato questo territorio in piena estate avrà sicuramente notato le balle di paglia a forma di enormi ruote disseminate tra le stoppie. (Così si presenta un campo di grano dopo la mietitrebbiatura.) Si rimane incantati, sembra di ammirare un lunghissimo pentagramma sul quale armoniose note diffondono nel nostro essere la musica senza tempo del susseguirsi delle stagioni. Rapiti dalla natura ci si sente un po’ contadini, tutti.
Ricordi ancestrali riaffiorano a nostra insaputa e la parte più intima e vera del nostro essere recupera la sintonia con l’universo. Una sensazione così la può regalare solo un paesaggio da sempre votato alla coltura del grano. Cereale sacro, sinonimo di nutrimento, metafora di abbondanza, benedizione per antonomasia. La gente della Val d’Orcia sintetizza queste sensazioni celebrando con mani sapienti il rito dei “pici”, la caratteristica pasta diffusa in tutta la provincia di Siena a forma di grosso spaghetto. Da queste considerazioni bisogna partire per entrare nella magia delle cose semplici, delle cose fatte bene, delle cose che ci appartengono veramente e che ci identificano nel mondo. Così attraverso questo equilibrato modo di concepire la vita, il lavoro, attualmente i campi della Val d’Orcia continuano a produrre grano duro di elevatissima qualità.
Si stima che ogni anno il grano ricavato ammonti a circa 350000 quintali. Certo oggigiorno il lavoro dei campi è meccanizzato, ma a parte questo non c’è stato quasi nessun altro sostanziale cambiamento. Soprattutto se si pensa alla dedizione, al sudore, l’impegno e alla passione. E questo è il nodo principale della questione. La passione che da generazioni si rinnova e si rinvigorisce. Un coltivatore vero di grano, segue in prima persona i suoi campi, anche se ha alle dipendenze operai e contadini. Quando a maggio le piantine verdeggiano in un mare smeraldo, il coltivatore è lì a perdere lo sguardo in quel lieto tremolare. Quando ad agosto l’immenso tappeto d’oro si asciuga al sole, è ancora lì a sorvegliare che gli steli si pieghino dolcemente lasciando reclinare la spiga carica di chicchi. Ne coglie qualcuna, la sgrana con le dita e vaglia la qualità del suo prodotto, non di rado l’assaggia intuendone orgogliosamente le caratteristiche organolettiche che saranno trasferite dalla farina….alla pasta. E tutto questo, lungo il naturale scorrere del tempo che scandisce da secoli l’alternarsi delle stagioni. Di tanto in tanto uno sguardo all’orizzonte, dove le spighe incontrano il cielo: e già! Bisogna che la pioggia, il sole, il vento continuino a collaborare, spesso si è vittima di apprensione, una grandinata improvvisa e… buona notte… Poi arriva finalmente il tempo della mietitura: la mietitrebbia entra in funzione e il coltivatore ammira la cascata di chicchi di grano: ancora una volta è avvenuto il miracolo e l’annata è stata buona. Il “getto” del grano che si accumula è irresistibile, l’emozione malcelata viene tradita dalle mani che vogliono toccare il raccolto come se incredule cercassero conferma del risultato raggiunto. Tutto questo e altro ancora vuol dire coltivare grano nella Val d’Orcia…da sempre.
Nunzio Dell’Annunziata
Da recenti ricerche di bio-archeologia, nei pressi di Pienza (Cava Barbieri) sono stati trovati semi fossili di quello che potremmo definire il “progenitore”
dell’attuale grano duro. Questa è una testimonianza a riprova di quella vocazione cerealicola che nella Val d’Orcia si perde nella notte dei tempi. La notizia non stupisce affatto: chiunque abbia attraversato questo territorio in piena estate avrà sicuramente notato le balle di paglia a forma di enormi ruote disseminate tra le stoppie. (Così si presenta un campo di grano dopo la mietitrebbiatura.) Si rimane incantati, sembra di ammirare un lunghissimo pentagramma sul quale armoniose note diffondono nel nostro essere la musica senza tempo del susseguirsi delle stagioni. Rapiti dalla natura ci si sente un po’ contadini, tutti.
Ricordi ancestrali riaffiorano a nostra insaputa e la parte più intima e vera del nostro essere recupera la sintonia con l’universo. Una sensazione così la può regalare solo un paesaggio da sempre votato alla coltura del grano. Cereale sacro, sinonimo di nutrimento, metafora di abbondanza, benedizione per antonomasia. La gente della Val d’Orcia sintetizza queste sensazioni celebrando con mani sapienti il rito dei “pici”, la caratteristica pasta diffusa in tutta la provincia di Siena a forma di grosso spaghetto. Da queste considerazioni bisogna partire per entrare nella magia delle cose semplici, delle cose fatte bene, delle cose che ci appartengono veramente e che ci identificano nel mondo. Così attraverso questo equilibrato modo di concepire la vita, il lavoro, attualmente i campi della Val d’Orcia continuano a produrre grano duro di elevatissima qualità.
Si stima che ogni anno il grano ricavato ammonti a circa 350000 quintali. Certo oggigiorno il lavoro dei campi è meccanizzato, ma a parte questo non c’è stato quasi nessun altro sostanziale cambiamento. Soprattutto se si pensa alla dedizione, al sudore, l’impegno e alla passione. E questo è il nodo principale della questione. La passione che da generazioni si rinnova e si rinvigorisce. Un coltivatore vero di grano, segue in prima persona i suoi campi, anche se ha alle dipendenze operai e contadini. Quando a maggio le piantine verdeggiano in un mare smeraldo, il coltivatore è lì a perdere lo sguardo in quel lieto tremolare. Quando ad agosto l’immenso tappeto d’oro si asciuga al sole, è ancora lì a sorvegliare che gli steli si pieghino dolcemente lasciando reclinare la spiga carica di chicchi. Ne coglie qualcuna, la sgrana con le dita e vaglia la qualità del suo prodotto, non di rado l’assaggia intuendone orgogliosamente le caratteristiche organolettiche che saranno trasferite dalla farina….alla pasta. E tutto questo, lungo il naturale scorrere del tempo che scandisce da secoli l’alternarsi delle stagioni. Di tanto in tanto uno sguardo all’orizzonte, dove le spighe incontrano il cielo: e già! Bisogna che la pioggia, il sole, il vento continuino a collaborare, spesso si è vittima di apprensione, una grandinata improvvisa e… buona notte… Poi arriva finalmente il tempo della mietitura: la mietitrebbia entra in funzione e il coltivatore ammira la cascata di chicchi di grano: ancora una volta è avvenuto il miracolo e l’annata è stata buona. Il “getto” del grano che si accumula è irresistibile, l’emozione malcelata viene tradita dalle mani che vogliono toccare il raccolto come se incredule cercassero conferma del risultato raggiunto. Tutto questo e altro ancora vuol dire coltivare grano nella Val d’Orcia…da sempre.
Nunzio Dell’Annunziata