Lo chiamano "il quadro maledetto" e qualcuno sembra averlo visto nella cripta sotto una chiesa di paese in Val d’Orcia.
La chiamano la leggenda dell’angelo purpureo. Amici toscani raccontano a Theo di un quadro misterioso che appare in un posto e poi scompare, per apparire in un altro, nel territorio di Siena. E chi lo vede, sparisce a sua volta. Entra subito nel vivo la vicenda al centro del romanzo d’esordio di Fabrizio Santi, “Il quadro maledetto” (Edizioni Newton Compton, 334 pagine 9,90 euro) e strega rapidamente i lettori, che si
appassioneranno alla storia dell’angelo misterioso, dipinto nell’atto di consegnare un messaggio.
Un thriller con tutti i caratteri del genere: ricerca e mistero, arricchiti da contenuti storici, artistici e una vena intrigante di esoterismo. La leggenda dell’angelo è affascinante ma del tutto inventata dall’autore. Santi è romano, scrittore al debutto, docente d’inglese e direttore d’orchestra, musicista appassionato di arti visive e del Bel Paese. Infatti, la vicenda si svolge in uno scenario affascinante, la provincia toscana, i piccoli centri medioevali del senese, oltre agli angoli segreti di una Roma da “Segno del comando”, mai così incantati e spesso notturni.
Anche il giovane Theodor Klinsmann è da sempre innamorato dell’Italia e la trova un Paese magico. Studioso di filosofia del linguaggio, per coglierne l’anima vera l’ha girata tutta e adora la Toscana e l’antichità autentica che si vive ancora a Firenze e a Siena.
A contagiarlo è stata la zia Greta, nota latinista dell’Università di Heidelberg. Spinta dall’ammirazione per la civiltà romana, aveva completato diversi soggiorni nel Paese, stabilendosi di fatto nella penisola sorrentina, terra di limoni e vigneti generosi, davanti a Capri. Si era poi spostata a Siena, attratta dalle ricerche sull’asse latino-germanico del prof. Semerano, bravo collega e buon amico.
Ed è nella città del Palio che Theodor – a spasso con l’auto d’epoca del docente italiano, una mitica 600 verde pisello – conosce il restauratore antiquario Anselmo e apprende della leggenda. Il Dragoni, un sagrestano di Radicofani, si è lasciato andare a rivelazioni nei fumi del vino, in una taverna di Montalcino, patria del Brunello. Ha detto di aver visto “qualcosa di straordinario”, nella cripta sotto una chiesa di paese in Val d’Orcia. Era rimasto stupefatto, ma la mattina dopo, non c’era più.
Fortemente incuriosito, Theo viene indirizzato verso chi potrebbe sapere di più. La graziosa figlia di un pittore, Irene, con la quale stabilisce una relazione, lo presenta a sua volta a un musicista romano. I tre formeranno la squadra di ricerca del romanzo.
La storia del sagrestano conduce alla chiesa di San Martino al Colle. Rimuovendovi alcune assi di legno sul pavimento dietro l’altare, il parroco di Castiglione d’Orcia, don Isidoro, aveva scoperto un buco largo un metro e mezzo e profondo almeno quattro metri. Per esplorarlo, aveva chiesto l’aiuto del curato di Radicofani, che si era portato appresso il Dragoni come manovale. Ammesso sia vero che questi abbia visto qualcosa, calandosi di nascosto nottetempo, è certo che don Isidoro si è volatilizzato e che nella buca la polizia non ha trovato assolutamente niente.
Ma la leggenda dell’angelo purpureo ha conquistato Theo, che ottiene nuovi particolari da un anziano benedettino, cui fa visita nel cenobio di Vallombrosa. Padre Gregorio racconta di un dipinto del XV o XVI secolo, di mano ignota, al quale si lega una sorte oscura. Appare e scompare a distanza di decenni in quelle terre. Quanti abbiano la sventura di vederlo perdono il senno e riferiscono particolari gli uni diversi dagli altri. Chi si ostina a cercare di capire il senso di quella pittura, sparisce anche lui. Il monaco è spaventato, sostiene che quel quadro è una stregoneria, non è una figura celestiale, è un’immagine maledetta, grida, prima di cacciare Theodor.
Come il giovane tedesco, anche i lettori, si è detto, non vedranno l’ora di scoprire l’arcano. E le minacce vengono rivolte sempre più chiaramente, le intimazioni di non continuare a cercare, ottengono ovviamente il risultato opposto, tanto più che si viene a scoprire una circostanza inattesa. Pare che don Isidoro sia vivo e vegeto. Gli è stata affidata sotto falso nome una chiesa romana. Theodor vi si reca, è nei pressi di Campo de’ Fiori, topos esoterico massonico d’eccellenza...
La chiamano la leggenda dell’angelo purpureo. Amici toscani raccontano a Theo di un quadro misterioso che appare in un posto e poi scompare, per apparire in un altro, nel territorio di Siena. E chi lo vede, sparisce a sua volta. Entra subito nel vivo la vicenda al centro del romanzo d’esordio di Fabrizio Santi, “Il quadro maledetto” (Edizioni Newton Compton, 334 pagine 9,90 euro) e strega rapidamente i lettori, che si
appassioneranno alla storia dell’angelo misterioso, dipinto nell’atto di consegnare un messaggio.
Un thriller con tutti i caratteri del genere: ricerca e mistero, arricchiti da contenuti storici, artistici e una vena intrigante di esoterismo. La leggenda dell’angelo è affascinante ma del tutto inventata dall’autore. Santi è romano, scrittore al debutto, docente d’inglese e direttore d’orchestra, musicista appassionato di arti visive e del Bel Paese. Infatti, la vicenda si svolge in uno scenario affascinante, la provincia toscana, i piccoli centri medioevali del senese, oltre agli angoli segreti di una Roma da “Segno del comando”, mai così incantati e spesso notturni.
Anche il giovane Theodor Klinsmann è da sempre innamorato dell’Italia e la trova un Paese magico. Studioso di filosofia del linguaggio, per coglierne l’anima vera l’ha girata tutta e adora la Toscana e l’antichità autentica che si vive ancora a Firenze e a Siena.
A contagiarlo è stata la zia Greta, nota latinista dell’Università di Heidelberg. Spinta dall’ammirazione per la civiltà romana, aveva completato diversi soggiorni nel Paese, stabilendosi di fatto nella penisola sorrentina, terra di limoni e vigneti generosi, davanti a Capri. Si era poi spostata a Siena, attratta dalle ricerche sull’asse latino-germanico del prof. Semerano, bravo collega e buon amico.
Ed è nella città del Palio che Theodor – a spasso con l’auto d’epoca del docente italiano, una mitica 600 verde pisello – conosce il restauratore antiquario Anselmo e apprende della leggenda. Il Dragoni, un sagrestano di Radicofani, si è lasciato andare a rivelazioni nei fumi del vino, in una taverna di Montalcino, patria del Brunello. Ha detto di aver visto “qualcosa di straordinario”, nella cripta sotto una chiesa di paese in Val d’Orcia. Era rimasto stupefatto, ma la mattina dopo, non c’era più.
Fortemente incuriosito, Theo viene indirizzato verso chi potrebbe sapere di più. La graziosa figlia di un pittore, Irene, con la quale stabilisce una relazione, lo presenta a sua volta a un musicista romano. I tre formeranno la squadra di ricerca del romanzo.
La storia del sagrestano conduce alla chiesa di San Martino al Colle. Rimuovendovi alcune assi di legno sul pavimento dietro l’altare, il parroco di Castiglione d’Orcia, don Isidoro, aveva scoperto un buco largo un metro e mezzo e profondo almeno quattro metri. Per esplorarlo, aveva chiesto l’aiuto del curato di Radicofani, che si era portato appresso il Dragoni come manovale. Ammesso sia vero che questi abbia visto qualcosa, calandosi di nascosto nottetempo, è certo che don Isidoro si è volatilizzato e che nella buca la polizia non ha trovato assolutamente niente.
Ma la leggenda dell’angelo purpureo ha conquistato Theo, che ottiene nuovi particolari da un anziano benedettino, cui fa visita nel cenobio di Vallombrosa. Padre Gregorio racconta di un dipinto del XV o XVI secolo, di mano ignota, al quale si lega una sorte oscura. Appare e scompare a distanza di decenni in quelle terre. Quanti abbiano la sventura di vederlo perdono il senno e riferiscono particolari gli uni diversi dagli altri. Chi si ostina a cercare di capire il senso di quella pittura, sparisce anche lui. Il monaco è spaventato, sostiene che quel quadro è una stregoneria, non è una figura celestiale, è un’immagine maledetta, grida, prima di cacciare Theodor.
Come il giovane tedesco, anche i lettori, si è detto, non vedranno l’ora di scoprire l’arcano. E le minacce vengono rivolte sempre più chiaramente, le intimazioni di non continuare a cercare, ottengono ovviamente il risultato opposto, tanto più che si viene a scoprire una circostanza inattesa. Pare che don Isidoro sia vivo e vegeto. Gli è stata affidata sotto falso nome una chiesa romana. Theodor vi si reca, è nei pressi di Campo de’ Fiori, topos esoterico massonico d’eccellenza...