(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°12)
Tra i più geniali, brillanti ed originali personaggi che, nei
secoli passati, si sono innamorati della Valdorcia, merita un ricordo tutto
particolare l’architetto, letterato ed inventore chiancianese Leonardo
Massimiliano De’Vegni che, dalla metà del
settecento alla fine di quel secolo, impiantò a Bagni San Filippo una incredibile “fabbrica” di sculture. Si, non c’è errore, non un “atelier” dove si scolpiva, ma un laboratorio dove si “producevano” rilievi senza scolpirli. Ma come faceva, ci si può legittimamente chiedere. La storia, per come la conosciamo, è veramente stupefacente. Cominciamo dall’inizio. I De’Vegni di Chianciano avevano una proprietà a Bagno San Filippo. Il giovane Leonardo, nato nel 1731, trascorse probabilmente in Valdorcia alcune estati della sua adolescenza e gioventù. Il ragazzo era dotato di notevole curiosità ed intelligenza e, lontano dai divertimenti, si appassionò ai fenomeni naturali ed alla particolare geologia del luogo. Non ci sono cronache di quegli anni ma, a giudicare da quanto scrisse lui stesso alcuni decenni dopo nella prima edizione della “Descrizione del Casale e Bagni di S. Filippo in Toscana con i suoi annessi” del 1761, fu allora che elaborò la sua idea. Le numerose sorgive sulfuree producevano, come possibile vedere anche oggi al Fosso Bianco ed in altri luoghi, depositi calcarei di notevole durezza, versatilità di forme e velocità di deposito. Per queste caratteristiche particolari, c’è testimonianza che, già in precedenza al giovane De’Vegni, i pochi abitanti del luogo che aveva una fama sinistra, oltre ad essere considerato del tutto malsano per le numerose “mofete” e “puzzolaie”, avevano pensato bene di deviare flussi di acqua calcarea verso impalcati di murature a secco che, nel giro di non molti giorni, finivano per cementarsi completamente al solo passaggio delle acque ed al loro deposito, senza l’uso di calce. Sarà stata l’osservazione dell’opera della natura, o di quello che l’uomo poteva ottenere dall’uso delle stesse energie, che il De’Vegni elaborò prima teoricamente, e poi in pratica, un sistema per realizzare sculture senza scalpello che descrisse minuziosamente in vari suoi scritti. In pratica, semplificando molto, capì che canalizzando le acque in maniera da generare una piccola cascata e realizzando alla base due piani inclinati con un certo angolo, il calcare contenuto nell’acqua, più pesante del liquido, nella caduta si scindeva da questo depositandosi nella adiacente superficie, producendo con una relativa celerità, strati successivi di accumulo, che si adattavano anche a stampi o ad oggetti, foglie e quant’altro incontravano, creando in poco tempo rilievi, stemmi, perfino altorilievi. Andando ad ascoltare le parole con cui descriveva la sua scoperta veniamo a sapere che La Plastica de’ tartari è un’arte da me inventata, colla quale le acque tartarizzanti sono determinate a deporre il tartaro loro configurato, colorito, duro, trasparente, e resistente, come a me piace. Osteggiato dal padre che lo volle, per forza, far laureare in Legge a Siena nel 1750, poté finalmente indirizzarsi verso le scienze, la filosofia e l’architettura, solo dopo la morte dell’uomo avvenuta nel 1757. Scomparso il genitore il primo pensiero fu quello di realizzare la “Fabbrica del tartaro” che, nel giro di pochi anni, divenne una realtà produttiva di prim’ordine nella toscana granducale, tanto che nel 1769, venne a visitarla Pietro Leopoldo Lorena in persona. Il Granduca, grande fautore del rinnovo sociale ed economico della Toscana, volle approfondire con il De’Vegni tutti gli aspetti tecnici e scientifici della scoperta e, evidentemente soddisfatto, volle che producesse alcuni rilievi anche per un padiglione in costruzione di Palazzo Pitti, oggi scomparsi. Molte furono le commesse sia in Italia che all’estero, e perfino in America, dove inviò alcuni ritratti di Beniamino Franklin. Essendo però oggetti di tipo ripetitivo e, comunque, “industriale” non furono poi considerati opere di particolare valore artistico per cui, passato il momento, furono quasi tutti distrutti o si deteriorarono alle intemperie. In particolare se ne conosce solo uno esistente, che Leonardo volle donare al paese natale, a Chianciano, un Cristo collocato in origine sopra alla Porta a Sole, che ricostruì lui stesso in forme settecentesche. Anche il personaggio De’Vegni, che ebbe una considerevole attività ed un successo soprattutto come architetto, subì per molto tempo l’oblio cui furono destinate le sue sculture in “tartaro”. Personalmente ebbi la fortuna di partecipare ad una ricerca universitaria nel biennio 1984-85 grazie alla quale, il Professor Carlo Cresti titolare della cattedra di Storia dell’Architettura di Firenze, promosse la riscoperta del personaggio di cui restava una flebile traccia nella letteratura sette-ottocentesca. In quell'occasione trovarono una loro attribuzione palazzi, teatri, edifici civili e religiosi di cui si era persa completamente la paternità. Non solo, grazie al fatto di aver acceso i riflettori su opere architettoniche di qualità ma poco considerate, come il teatro di Foiano della Chiana già trasformato in discoteca o quello di Montalcino abbandonato da tempo, se ne consentì l'acquisizione pubblica e, comunque, il recupero. Vennero poi alla luce suoi progetti ancora di tipo teatrale o civico, oltre a documenti di ogni genere, tra cui il testamento, e numerose tracce delle sue molteplici attività fino alla progressiva infermità ed alla morte che avvenne nel 1799.
settecento alla fine di quel secolo, impiantò a Bagni San Filippo una incredibile “fabbrica” di sculture. Si, non c’è errore, non un “atelier” dove si scolpiva, ma un laboratorio dove si “producevano” rilievi senza scolpirli. Ma come faceva, ci si può legittimamente chiedere. La storia, per come la conosciamo, è veramente stupefacente. Cominciamo dall’inizio. I De’Vegni di Chianciano avevano una proprietà a Bagno San Filippo. Il giovane Leonardo, nato nel 1731, trascorse probabilmente in Valdorcia alcune estati della sua adolescenza e gioventù. Il ragazzo era dotato di notevole curiosità ed intelligenza e, lontano dai divertimenti, si appassionò ai fenomeni naturali ed alla particolare geologia del luogo. Non ci sono cronache di quegli anni ma, a giudicare da quanto scrisse lui stesso alcuni decenni dopo nella prima edizione della “Descrizione del Casale e Bagni di S. Filippo in Toscana con i suoi annessi” del 1761, fu allora che elaborò la sua idea. Le numerose sorgive sulfuree producevano, come possibile vedere anche oggi al Fosso Bianco ed in altri luoghi, depositi calcarei di notevole durezza, versatilità di forme e velocità di deposito. Per queste caratteristiche particolari, c’è testimonianza che, già in precedenza al giovane De’Vegni, i pochi abitanti del luogo che aveva una fama sinistra, oltre ad essere considerato del tutto malsano per le numerose “mofete” e “puzzolaie”, avevano pensato bene di deviare flussi di acqua calcarea verso impalcati di murature a secco che, nel giro di non molti giorni, finivano per cementarsi completamente al solo passaggio delle acque ed al loro deposito, senza l’uso di calce. Sarà stata l’osservazione dell’opera della natura, o di quello che l’uomo poteva ottenere dall’uso delle stesse energie, che il De’Vegni elaborò prima teoricamente, e poi in pratica, un sistema per realizzare sculture senza scalpello che descrisse minuziosamente in vari suoi scritti. In pratica, semplificando molto, capì che canalizzando le acque in maniera da generare una piccola cascata e realizzando alla base due piani inclinati con un certo angolo, il calcare contenuto nell’acqua, più pesante del liquido, nella caduta si scindeva da questo depositandosi nella adiacente superficie, producendo con una relativa celerità, strati successivi di accumulo, che si adattavano anche a stampi o ad oggetti, foglie e quant’altro incontravano, creando in poco tempo rilievi, stemmi, perfino altorilievi. Andando ad ascoltare le parole con cui descriveva la sua scoperta veniamo a sapere che La Plastica de’ tartari è un’arte da me inventata, colla quale le acque tartarizzanti sono determinate a deporre il tartaro loro configurato, colorito, duro, trasparente, e resistente, come a me piace. Osteggiato dal padre che lo volle, per forza, far laureare in Legge a Siena nel 1750, poté finalmente indirizzarsi verso le scienze, la filosofia e l’architettura, solo dopo la morte dell’uomo avvenuta nel 1757. Scomparso il genitore il primo pensiero fu quello di realizzare la “Fabbrica del tartaro” che, nel giro di pochi anni, divenne una realtà produttiva di prim’ordine nella toscana granducale, tanto che nel 1769, venne a visitarla Pietro Leopoldo Lorena in persona. Il Granduca, grande fautore del rinnovo sociale ed economico della Toscana, volle approfondire con il De’Vegni tutti gli aspetti tecnici e scientifici della scoperta e, evidentemente soddisfatto, volle che producesse alcuni rilievi anche per un padiglione in costruzione di Palazzo Pitti, oggi scomparsi. Molte furono le commesse sia in Italia che all’estero, e perfino in America, dove inviò alcuni ritratti di Beniamino Franklin. Essendo però oggetti di tipo ripetitivo e, comunque, “industriale” non furono poi considerati opere di particolare valore artistico per cui, passato il momento, furono quasi tutti distrutti o si deteriorarono alle intemperie. In particolare se ne conosce solo uno esistente, che Leonardo volle donare al paese natale, a Chianciano, un Cristo collocato in origine sopra alla Porta a Sole, che ricostruì lui stesso in forme settecentesche. Anche il personaggio De’Vegni, che ebbe una considerevole attività ed un successo soprattutto come architetto, subì per molto tempo l’oblio cui furono destinate le sue sculture in “tartaro”. Personalmente ebbi la fortuna di partecipare ad una ricerca universitaria nel biennio 1984-85 grazie alla quale, il Professor Carlo Cresti titolare della cattedra di Storia dell’Architettura di Firenze, promosse la riscoperta del personaggio di cui restava una flebile traccia nella letteratura sette-ottocentesca. In quell'occasione trovarono una loro attribuzione palazzi, teatri, edifici civili e religiosi di cui si era persa completamente la paternità. Non solo, grazie al fatto di aver acceso i riflettori su opere architettoniche di qualità ma poco considerate, come il teatro di Foiano della Chiana già trasformato in discoteca o quello di Montalcino abbandonato da tempo, se ne consentì l'acquisizione pubblica e, comunque, il recupero. Vennero poi alla luce suoi progetti ancora di tipo teatrale o civico, oltre a documenti di ogni genere, tra cui il testamento, e numerose tracce delle sue molteplici attività fino alla progressiva infermità ed alla morte che avvenne nel 1799.
Nel 1985 si tenne anche un interessante convegno a
Chianciano, che concluse quell'esperienza, ma lasciò molti interrogativi
sull'opera del De'Vegni, che ad oggi non hanno avuto tutti risposta.
Sono passati quasi trent'anni da quei tempi, e sembra sia
trascorsa una eternità. Allora gli Enti locali, senza il vincolo del patto di
stabilità, iniziavano a finanziare studi e ricerche che, sorvolando sulle
ragioni spesso di tipo propagandistico che stavano dietro all’operato di
Sindaci e Assessori, hanno avuto il grande merito di promuovere la cultura scientifica
e la consapevolezza dell'importanza del passato anche in ambito locale.
Oggi nessuno si interessa più al settore. Nessuna risorsa pubblica
ma, cosa ancor più grama, nessuna considerazione nemmeno privata per questo
come per altri aspetti della nostra memoria. Alla base di tutto, purtroppo, c'è
una grave mancanza educativa che non consente di approfondire e di comprendere
quale fortuna abbiamo ad aver ereditato un patrimonio non solo di monumenti e
luoghi, ma anche di conoscenze, informazioni, documenti, il cui solo
sfruttamento, anche brutalmente turistico, ci aprirebbe orizzonti
incredibilmente vantaggiosi.
Intendiamoci, non è solo una questione di classe dirigente
(politica e non), ignorante, autoreferenziata e, nella sostanza inconsistente,
il problema, mai come in quest'epoca, è che i vertici sono espressione di una
popolazione che, indubbiamente, li merita così come sono. E allora di chi è la
colpa? Di tutti noi? Probabilmente. E come si esce da una situazione di questo
tipo? Nessuno lo sa, ma è certo che la nostra società ha vissuto e superato
epoche ben più complesse e tragiche. Quindi basterebbe guardare indietro,
capire e sostenere i meccanismi insiti nella mente umana? Bisognerebbe
promuovere la partecipazione vera riappropriandoci delle deleghe in bianco che
abbiamo scelleratamente consegnato a tanti incapaci (e ladri)? Certamente andrebbe
fatto più affidamento all'intelligenza dell'uomo. Pensate solo se qualcuno oggi
avesse il cervello di Leonardo De'Vegni e volesse, di nuovo, impiantare una
"fabbrica del tartaro", magari a Bagni San Filippo. Quali vessazioni
burocratiche, quali insormontabili problematiche sanitarie, previdenziali o
ambientali: in sostanza sarebbe un impresa impossibile. E allora? Allora il
problema è proprio questo. L'epoca che visse il De'Vegni era l'illuminismo, lo
sperimentalismo. Il mondo in cui era nato era giunto al tramonto, un po' come
il nostro. Era ormai destinato a sgretolarsi sotto la spinta di nuovi soggetti
sociali. Lui stesso apparteneva alla classe media dell'epoca. Un uomo colto,
una personalità poliedrica che sperimentò se stesso in una infinità di campi
d’azione e che, forse suo malgrado, partecipò attivamente ad un cambiamento
epocale che, attraverso la rivoluzione industriale, portò con fatica e dopo un
lunghissimo tempo al trionfo della borghesia sulla staticità degli stati
nobiliari. Anche la nostra società borghese di regole asfissianti, contorte e
contraddittorie ha oggi fatto il suo tempo. Si pensi che Equitalia regalerà a
tutte le famiglie un "registrino" in cui tutti noi, forse dal
prossimo giugno, dovremo segnare la spese giornaliere, spillando gli scontrini
ritirati. Finalmente un bel passo avanti! Si tornerà all'amministrazione
settecentesca dell'abaco! Paradossalmente basta solo questo a dire come siamo
ridotti e quale modernità ha ancor oggi, l'avventura che visse Leonardo
Massimiliano De'Vegni a Bagni San Filippo.
La conclusione amara è che l'osservazione e lo studio della storia non deve
portare a replicarla, bensì ad evitare di perpetrare gli errori già fatti, ma
ciò accade solo se si impegna tempo e cervello in un'opera solo apparentemente
futile e di dettaglio.