Questa volta niente etimologie, niente sorprese, niente storie strane: oggi voglio parlare dela lingua normale, quella di tutti i giorni. Non sufficientemente apprezzata, almeno non da tutti, spesso viene confusa con l’errore, con l’approssimazione. Può sembrare sciatta e dimessa, ma è solo modesta e funzionale.
Da questa immaginazione – cioè quella che la lingua della conversazione fra amici, quella dei giardinetti pubblici,
delle birrerie e dei ristoranti, non sia corretta – nasce un’idea velenosa e letale che sta distruggendo la nostra lingua, come se «calzature» fosse meglio di «scarpe»: sono semplicemente parole diverse – sono sinonimi? non proprio! –, hanno due stili diversi e diverso è il loro raggio d’azione: tutte le scarpe sono calzature, non tutte le calzature sono scarpe. Ma lasciamo stare e arriviamo al dunque: la bellezza, normale, della nostra lingua e dei procedimenti che la fanno comunicativa. Ecco che cosa si dovrebbe studiare a scuola: tali affascinanti meccanismi e non (solo) aride liste di forme che stancano, deprimono e annoiano.
La grammatica? Che noia! Tutti siamo stati studenti e tutti lo abbiamo pensato, almeno una volta.
La lingua è un meccanismo assai complesso che nasce, per così dire, sul confine di due esigenze opposte: la facilità d’uso e la chiarezza. Poche parole assicurerebbero una notevole facilità d’apprendimento, ma costituirebbero fonte di equivocità, perché ciascuna di esse sarebbe costretta ad assumersi l’onere di molti significati. Pensiamo alla parola «sale»: Marco «sale», le «sale» della mostra, il «sale» marino. Si fa per dire. Spero di essermi fatto intendere. Anche questa caratteristica della lingua, in fondo, è uno dei suoi pregi, perché la rende viva. Le parole inutili, quelle di troppo pian piano muoiono. E ne nascono altre.
Pensiamo, ora, ad altri tipi di bellezza, sempre assolutamente normali e quotidiani. Mi vengono in mente il verbo «durare» e l’aggettivo «duro». Che cosa c’è di bello in tutto questo? C’è la capacità di maneggiare l’analogia fra sfere e àmbiti diversi: c’è l’intelligenza dell’uomo. Prendiamo «duro». L’aggettivo descrive una densità, cioè una qualità fisica di un oggetto, mentre il verbo che ne deriva, «durare», descrive la capacità di rimanere nel tempo, di non deteriorarsi, e non, come in astratto avremmo pensato, «essere duro». Quello che conta è il nesso (come dire che in questo c’è dell’esperienza): chi è duro dura!
Non potrei dimenticare il termine «spesso» che si divide fra aggettivo e avverbio: il primo indica lo spessore di un oggetto, l’altro indica la frequenza nel tempo, ed equivale a ‘frequentemente’. Spazio e tempo sovrapposti! C’è da pensare che la nostra lingua quotidiana è assai ricca di luoghi interessanti e profondi sui quali potremmo bene esercitare la nostra intelligenza (che viene, invece, costantemente depressa con elenchi di forme destinate a essere presto dimenticate). Infine, penso al verbo «stuzzicare», che descrive, nello stesso tempo, due azioni reciproche (almeno in queste zone): se il piatto mi stuzzica – cioè mi provoca, mi tenta (diabolicamente? peccaminosamente? – io non posso che stuzzicarlo, e non mangiarlo in un sol boccone, a quattro palmenti, ma delicatamente cercarne le delicatezze nascoste, come si fa con un ossicino di selvaggina prelibata.
Da questa immaginazione – cioè quella che la lingua della conversazione fra amici, quella dei giardinetti pubblici,
delle birrerie e dei ristoranti, non sia corretta – nasce un’idea velenosa e letale che sta distruggendo la nostra lingua, come se «calzature» fosse meglio di «scarpe»: sono semplicemente parole diverse – sono sinonimi? non proprio! –, hanno due stili diversi e diverso è il loro raggio d’azione: tutte le scarpe sono calzature, non tutte le calzature sono scarpe. Ma lasciamo stare e arriviamo al dunque: la bellezza, normale, della nostra lingua e dei procedimenti che la fanno comunicativa. Ecco che cosa si dovrebbe studiare a scuola: tali affascinanti meccanismi e non (solo) aride liste di forme che stancano, deprimono e annoiano.
La grammatica? Che noia! Tutti siamo stati studenti e tutti lo abbiamo pensato, almeno una volta.
La lingua è un meccanismo assai complesso che nasce, per così dire, sul confine di due esigenze opposte: la facilità d’uso e la chiarezza. Poche parole assicurerebbero una notevole facilità d’apprendimento, ma costituirebbero fonte di equivocità, perché ciascuna di esse sarebbe costretta ad assumersi l’onere di molti significati. Pensiamo alla parola «sale»: Marco «sale», le «sale» della mostra, il «sale» marino. Si fa per dire. Spero di essermi fatto intendere. Anche questa caratteristica della lingua, in fondo, è uno dei suoi pregi, perché la rende viva. Le parole inutili, quelle di troppo pian piano muoiono. E ne nascono altre.
Pensiamo, ora, ad altri tipi di bellezza, sempre assolutamente normali e quotidiani. Mi vengono in mente il verbo «durare» e l’aggettivo «duro». Che cosa c’è di bello in tutto questo? C’è la capacità di maneggiare l’analogia fra sfere e àmbiti diversi: c’è l’intelligenza dell’uomo. Prendiamo «duro». L’aggettivo descrive una densità, cioè una qualità fisica di un oggetto, mentre il verbo che ne deriva, «durare», descrive la capacità di rimanere nel tempo, di non deteriorarsi, e non, come in astratto avremmo pensato, «essere duro». Quello che conta è il nesso (come dire che in questo c’è dell’esperienza): chi è duro dura!
Non potrei dimenticare il termine «spesso» che si divide fra aggettivo e avverbio: il primo indica lo spessore di un oggetto, l’altro indica la frequenza nel tempo, ed equivale a ‘frequentemente’. Spazio e tempo sovrapposti! C’è da pensare che la nostra lingua quotidiana è assai ricca di luoghi interessanti e profondi sui quali potremmo bene esercitare la nostra intelligenza (che viene, invece, costantemente depressa con elenchi di forme destinate a essere presto dimenticate). Infine, penso al verbo «stuzzicare», che descrive, nello stesso tempo, due azioni reciproche (almeno in queste zone): se il piatto mi stuzzica – cioè mi provoca, mi tenta (diabolicamente? peccaminosamente? – io non posso che stuzzicarlo, e non mangiarlo in un sol boccone, a quattro palmenti, ma delicatamente cercarne le delicatezze nascoste, come si fa con un ossicino di selvaggina prelibata.