di Giuseppe Maria Frunzi
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°8)
La casistica giurisprudenziale ha visto negli ultimi anni incrementare le posizioni contenziose, relative alle società di capitali, aventi ad oggetto l'impugnativa di delibere assembleari per aumento di capitale al verificarsi di ipotesi di abuso da parte del/i socio/i di maggioranza del proprio diritto di voto.
La questione, in tali “casi di studio” va ricostruita alla
luce delle complesse vicende patrimoniali, nonché personali, intervenute tra le parti.
La decisione di modificare l'entità del capitale ha sempre rappresentato "il banco di prova" per verificare l'operatività in concreto delle possibili soluzioni dirette a tutelare la minoranza dagli abusi della maggioranza assembleare, costituendo la tecnica più diffusa per eliminare gli effetti di un'indesiderata partecipazione dei soci di minoranza impossibilitati a sottoscrivere l'aumento.
Impedire al socio inviso di conservare la propria quota proporzionale di capitale comporta un'estromissione di fatto dalla compagine sociale.
È opportuno premettere che non si ravvisa un obbligo per la compagine sociale di tenere conto della situazione economica personale dei singoli soci e, in particolare, delle loro disponibilità finanziarie: la mera pretesa alla conservazione dello “stato di socio” non riceve protezione dall'Ordinamento.
Se acquistassero rilevanza le condizioni patrimoniali di chi non intende sottoscrivere le azioni di nuova emissione, dovrebbero del pari essere prese in considerazione e tutelate le ragioni di chi vuole, invece, impiegare i propri capitali nell'attività della società.
Ciò che la tutela dell'interesse sociale impone è un'equilibrata ponderazione tra le posizioni tipicamente riconosciute: la variazione del capitale deve essere utile, vale a dire funzionale ai fini di una produttiva, efficiente e spedita gestione dell'impresa, e non deve rendere maggiormente onerosa la conservazione del valore della singola quota.
In definitiva, non è di per sé contraria all'interesse sociale l'imposizione ai soci dissenzienti di ulteriori sacrifici patrimoniali non strettamente richiesti dalle esigenze dell'impresa; è bensì illegittimo l'intento vessatorio, insito nella deliberazione, di mortificare la minoranza al fine di perseguire vantaggi ingiustificati. Un tale vantaggio personale sarebbe in conflitto con le finalità comuni della società indipendentemente dai riflessi patrimoniali della delibera su di essa, e non tanto per la lesione di un interesse degli azionisti al minimo sacrificio patrimoniale, quanto, piuttosto, per la volontà della maggioranza di appropriarsi di benefici particolari ai danni della minoranza, privandola così dell'esercizio di diritti qualificati.
Se, però, da un lato, il principio maggioritario rappresenta uno strumento tecnico per garantire l'efficienza e la speditezza dell'azione sociale poiché, svincolandola dal rischio del veto del singolo socio, agevola il costante adeguamento del rapporto societario alle sempre mutevoli esigenze dell'attività economica; dall'altro, la minoranza risulta esposta al pericolo di vedere ingiustificatamente sacrificati i propri diritti per l'esclusivo vantaggio del gruppo di comando.
Per proteggere, quindi, il singolo socio da eventuali atti abusivi, il procedimento assembleare di formazione della volontà sociale deve allora necessariamente incontrare dei limiti.
Soltanto il perseguimento di uno scopo comune a tutta la compagine sociale legittima l'attribuzione alla maggioranza del potere di incidere così profondamente nell'organismo societario, per cui una deliberazione presa per una finalità diversa da questa, spezza il nesso di congruenza teleologica rispetto all'interesse sociale e gli atti, formalmente legali, sono da considerarsi sostanzialmente illegali .
Le regole di correttezza e buona fede dovrebbero governare le decisioni adottate dalla maggioranza dei soci ma, in alcune ipotesi, gli organi giudicanti hanno, con apposite ordinanze cautelari, disposto la sospensione per gravi motivi dell'esecuzione di tali delibere, impugnate ex art. 2377 c.c., sul presupposto del verificarsi di un abuso della regola di maggioranza.
La delibera, seppur formalmente valida, è sostanzialmente illegittima in quanto animata da un fine non conforme a quello prescritto dalla legge: l'aumento di capitale diventa lo strumento per raggiungere un interesse extrasociale, vale a dire deprimere la partecipazione del socio di minoranza, in modo tale da ostacolarne l'esercizio dei diritti dipendenti dalla titolarità di partecipazioni determinate al capitale sociale.
Il vizio in questione si identifica nell'abuso del potere di voto ( o della regola di maggioranza): il voto, abusivamente esercitato, è invalido ed è tale da rendere annullabile la delibera assembleare se ed in quanto non abbia avuto valenza marginale ovvero sia stato determinante per raggiungere la maggioranza dei consensi.
Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza è da ricondursi al ben più ampio “genere” dell'abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi nelle quali un contegno, formalmente rispettoso dell'esercizio del diritto soggettivo, debba ritenersi però privo di tutela giuridica, o illecito.
Quindi, il concetto di abuso è finalizzato alla sanzione dell'esercizio del diritto finalizzato al perseguimento di utilità anormali ovvero difformi dalla funzione socio-economica in relazione alla quale il diritto stesso è riconosciuto al titolare e dalla ragione della tutela accordata a livello normativo.
La rottura dell'uguaglianza e della parità di trattamento tra i soci legittima il ricorso ad una sanzione severa come l'annullamento della delibera assembleare.
Avv. Giuseppe Maria Frunzi
slf.italia@libero.it
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°8)
La casistica giurisprudenziale ha visto negli ultimi anni incrementare le posizioni contenziose, relative alle società di capitali, aventi ad oggetto l'impugnativa di delibere assembleari per aumento di capitale al verificarsi di ipotesi di abuso da parte del/i socio/i di maggioranza del proprio diritto di voto.
La questione, in tali “casi di studio” va ricostruita alla
luce delle complesse vicende patrimoniali, nonché personali, intervenute tra le parti.
La decisione di modificare l'entità del capitale ha sempre rappresentato "il banco di prova" per verificare l'operatività in concreto delle possibili soluzioni dirette a tutelare la minoranza dagli abusi della maggioranza assembleare, costituendo la tecnica più diffusa per eliminare gli effetti di un'indesiderata partecipazione dei soci di minoranza impossibilitati a sottoscrivere l'aumento.
Impedire al socio inviso di conservare la propria quota proporzionale di capitale comporta un'estromissione di fatto dalla compagine sociale.
È opportuno premettere che non si ravvisa un obbligo per la compagine sociale di tenere conto della situazione economica personale dei singoli soci e, in particolare, delle loro disponibilità finanziarie: la mera pretesa alla conservazione dello “stato di socio” non riceve protezione dall'Ordinamento.
Se acquistassero rilevanza le condizioni patrimoniali di chi non intende sottoscrivere le azioni di nuova emissione, dovrebbero del pari essere prese in considerazione e tutelate le ragioni di chi vuole, invece, impiegare i propri capitali nell'attività della società.
Ciò che la tutela dell'interesse sociale impone è un'equilibrata ponderazione tra le posizioni tipicamente riconosciute: la variazione del capitale deve essere utile, vale a dire funzionale ai fini di una produttiva, efficiente e spedita gestione dell'impresa, e non deve rendere maggiormente onerosa la conservazione del valore della singola quota.
In definitiva, non è di per sé contraria all'interesse sociale l'imposizione ai soci dissenzienti di ulteriori sacrifici patrimoniali non strettamente richiesti dalle esigenze dell'impresa; è bensì illegittimo l'intento vessatorio, insito nella deliberazione, di mortificare la minoranza al fine di perseguire vantaggi ingiustificati. Un tale vantaggio personale sarebbe in conflitto con le finalità comuni della società indipendentemente dai riflessi patrimoniali della delibera su di essa, e non tanto per la lesione di un interesse degli azionisti al minimo sacrificio patrimoniale, quanto, piuttosto, per la volontà della maggioranza di appropriarsi di benefici particolari ai danni della minoranza, privandola così dell'esercizio di diritti qualificati.
Se, però, da un lato, il principio maggioritario rappresenta uno strumento tecnico per garantire l'efficienza e la speditezza dell'azione sociale poiché, svincolandola dal rischio del veto del singolo socio, agevola il costante adeguamento del rapporto societario alle sempre mutevoli esigenze dell'attività economica; dall'altro, la minoranza risulta esposta al pericolo di vedere ingiustificatamente sacrificati i propri diritti per l'esclusivo vantaggio del gruppo di comando.
Per proteggere, quindi, il singolo socio da eventuali atti abusivi, il procedimento assembleare di formazione della volontà sociale deve allora necessariamente incontrare dei limiti.
Soltanto il perseguimento di uno scopo comune a tutta la compagine sociale legittima l'attribuzione alla maggioranza del potere di incidere così profondamente nell'organismo societario, per cui una deliberazione presa per una finalità diversa da questa, spezza il nesso di congruenza teleologica rispetto all'interesse sociale e gli atti, formalmente legali, sono da considerarsi sostanzialmente illegali .
Le regole di correttezza e buona fede dovrebbero governare le decisioni adottate dalla maggioranza dei soci ma, in alcune ipotesi, gli organi giudicanti hanno, con apposite ordinanze cautelari, disposto la sospensione per gravi motivi dell'esecuzione di tali delibere, impugnate ex art. 2377 c.c., sul presupposto del verificarsi di un abuso della regola di maggioranza.
La delibera, seppur formalmente valida, è sostanzialmente illegittima in quanto animata da un fine non conforme a quello prescritto dalla legge: l'aumento di capitale diventa lo strumento per raggiungere un interesse extrasociale, vale a dire deprimere la partecipazione del socio di minoranza, in modo tale da ostacolarne l'esercizio dei diritti dipendenti dalla titolarità di partecipazioni determinate al capitale sociale.
Il vizio in questione si identifica nell'abuso del potere di voto ( o della regola di maggioranza): il voto, abusivamente esercitato, è invalido ed è tale da rendere annullabile la delibera assembleare se ed in quanto non abbia avuto valenza marginale ovvero sia stato determinante per raggiungere la maggioranza dei consensi.
Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza è da ricondursi al ben più ampio “genere” dell'abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi nelle quali un contegno, formalmente rispettoso dell'esercizio del diritto soggettivo, debba ritenersi però privo di tutela giuridica, o illecito.
Quindi, il concetto di abuso è finalizzato alla sanzione dell'esercizio del diritto finalizzato al perseguimento di utilità anormali ovvero difformi dalla funzione socio-economica in relazione alla quale il diritto stesso è riconosciuto al titolare e dalla ragione della tutela accordata a livello normativo.
La rottura dell'uguaglianza e della parità di trattamento tra i soci legittima il ricorso ad una sanzione severa come l'annullamento della delibera assembleare.
Avv. Giuseppe Maria Frunzi
slf.italia@libero.it