(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°7)
Non sono la sola ad aver
traslocato dalla città per vivere in un luogo di mirabili paesaggi. Anche se
molti, magari, possono essere indotti a pensare che un trasloco da Milano a
Montalcino, potrebbe essere
stato stimolato dal vino Brunello, che a Montalcino nasce e diviene (ma non è così).
stato stimolato dal vino Brunello, che a Montalcino nasce e diviene (ma non è così).
Non sono la sola ad aver
fortemente desiderato e poi pianificato questo viaggio ideale; ma sono tra quelli che l’hanno pensato, sentito e realizzato
in tempi non sospetti, quasi controcorrente, mentre l’inclinazione generale era
quella di cercarsi una casa al mare. E non siamo pochi ad aver fatto questa
scelta. Anche se parlare di paesaggio – fino a poco tempo fa – era un po’ come
parlare di ‘lettura’ negli anni sessanta del secolo scorso: un argomento da
salotto, da ‘signore bene’, qualcosa insomma di cui si poteva raccontare, anzi
meglio chiacchierare, bevendo un tè, tra gente che non ha niente di urgente o
di concreto da combinare.
Di paesaggio si è parlato, un
po’, come di un derivato dell’ambiente o di un suo corollario – il che è vero
solo parzialmente perché sono due concetti diversi –. È successo tra i “verdi”,
intesi come partito, come movimento e come modo di sentire; ma lo sguardo
ambientalista – rifiuti, qualità dell’acqua, energie alternative, ecologia – è
di solito prevalso.
Si parla raramente di paesaggio
nei mondi che più ne trarrebbero vantaggi – quello del vino, ma anche di altri
prodotti agricoli felicemente trasformati nel nostro paese – e quello del
turismo, che ha girato il suo sguardo piuttosto verso le città d’arte e/o la
disseminazione di beni culturali nel territorio. Nel caso del turismo, sono
convinta che le varie autorità e istituzioni non si sono (ancora) occupate di
paesaggio anche perché non si capisce come il paesaggio possa essere l’oggetto
di un “biglietto da pagare”, non ha un ingresso, come un museo…
Nel caso dell’agricoltura di
qualità – vino, olio, formaggi, legumi e altre meraviglie –, dove operano
coloro che il paesaggio l’hanno creato nei secoli, l’estraneità, anzi, l’ostilità
a questo argomento, io credo, è strettamente correlata proprio al fatto che il
paesaggio, nato dall’agricoltura, ne è continuamente influenzato. E il
paesaggio agricolo italiano, che è ancora più suggestivo grazie alla ‘maglia
piccola’, ha tutto da perdere quando le colture diventano ‘mono’ e diventano più
estese (per quanto il nostro territorio lo consenta poco, date le
caratteristiche orografiche).
Forse solo la pianura padana trae
suggestione dall’intervallarsi di pioppeti (ordinati e geometrici) con grandi
campi coltivati a granturco a qualche foraggio, o altro. Ma anche lì,
l’estensione è limitata dalle dimensioni di una terra con insediamenti,
confini, realtà sociali e storiche che sono cresciute finora con modelli nostrali.
L’agricoltura italiana – quasi cenerentola senza principe – non può certo
‘competere’ con i parametri più ligi allo “sviluppo”, così com’è inteso, di
solito, dagli economisti.
Ma non sono forse proprio lì i
nostri vantaggi competitivi? Nelle estensioni piuttosto piccole, nei terroir
raffinati e nei prodotti esclusivi e, di conseguenza, nei paesaggi che hanno
meravigliato intere generazioni di intellettuali, di gente colta, di artisti? Non
è che questo insistente ritornello - “le nostre imprese (agricole) sono troppo
piccole” - segue ciecamente il modello
di pensiero, superato, del ‘grande è bello’? (quello stesso pensiero che faceva
dire a un amico economista che a Montalcino “bisognerebbe pensare a delle
fusioni tra imprese agricole, bisognerebbe che i vigneti aumentassero
considerevolmente le loro estensioni, perché così si potrebbero ottenere
notevoli economie”).
Fino a qualche anno fa si pensava
raramente a tutto quello che l’agricoltura implica; fino a tre decenni orsono
il cibo non era nemmeno messo in relazione alla terra, figurarsi al paesaggio. Ora,
se ne parla sempre di più, e se ne parla perché in qualche ragionamento – qua e
là – si comincia finalmente ad agganciare il paesaggio a
dei valori economici (i soli che mi pare siano presi in considerazione).
È stata però una bella sorpresa, ascoltare il direttore di Avvenire (Marco Tarquini, che durante la scorsa settimana ha moderato tutte le mattine una delle principali rassegne stampa alla radio), parlare quotidianamente del bel paesaggio italiano e della sua fama, citarlo come valore nelle diverse declinazioni, trovare ogni giorno l’occasione per incastonarlo nelle notizie di cronaca, di politica, di economia spendendo parole autorevoli per portarlo all’attenzione dell’audience. Sentirlo ‘spiegare’ il paesaggio, raccontare perché è importante per la nostra vita, dire perché un bel paesaggio ci rasserena e aiuta a vivere meglio, mi fa pensare che saranno sempre di più quelli che si accorgeranno del suo valore. A poco a poco, molti si renderanno conto che la ricaduta economica è più veloce di quanto si possa superficialmente pensare e che un bel paesaggio è anche un bel pezzo di futuro.