(di: Andrea Gabbrielli - www.civiltadelbere.com)
Incontro con un grande protagonista del mondo del vino: manager, enologo, presidente del Consorzio del Brunello e autore di un volume in cui racconta come ha reso famosa Montalcino, attraverso un’azienda da lui creata e un vino ormai considerato uno dei simboli dell’intera produzione nazionale. Un testo da conservare proprio come fosse una bottiglia preziosa.
- Cavaliere, quali sono le circostanze che hanno portato alla nascita del libro?
«L’idea è stata del professor Alberto Mattiacci, oggi ordinario di Economia e gestione delle imprese alla Sapienza di Roma, nel dipartimento di Sociologia e comunicazione, e allora ordinario alla facoltà di Economia di Siena; è stato lui che, dopo uno studio sul territorio di Montalcino dove aveva evidenziato l’indiscussa leadership della Banfi nel lancio sia del Brunello sia di Montalcino nel mondo, mi ha proposto di scrivere un libro su questa esperienza ultraventennale. E così, dopo un’iniziale perplessità, accettai la proposta e incominciai a lavorarci con l’aiuto di mia figlia Virna».
- Io e Brunello infatti non è solo dedicato al vino e al territorio ma ricostruisce il contesto in cui è maturata la scelta di creare un’azienda d’ispirazione molto moderna rispetto ai canoni del tempo.
«Volevo allargare i miei orizzonti e nel 1957 lasciai Castagnole delle Lanze e il Piemonte per la Cantina Sociale Cooperativa di Marino, in provincia di Roma. Allora gli enopoli si occupavano del ciclo completo dell’uva, dal vino alla distillazione delle vinacce sino ai sottoprodotti come l’acido tartarico. In cantina l’enologo aggiustava tutto, i consumi pro capite erano gagliardi e lo sguardo delle aziende era essenzialmente rivolto al soddisfacimento della domanda interna».
- Lei scrive a proposito di Montalcino che era diventata “un chiodo fisso, una miscela che mi riesce difficile spiegare, tra il mito e la sfida”…
«A Montalcino, di cui avevo sempre sentito parlare, arrivai nel 1977. Rimasi alcuni giorni per capire. All’epoca, nonostante il mito del Brunello e della famiglia Biondi Santi, la viticoltura era ben poca cosa. La gran parte del vino era venduto sfuso, c’era una grande disponibilità di terreni abbandonati a basso prezzo (3-3,4 milioni di lire all’ettaro) e l’assenza quasi totale di investimenti per lanciare il vino e la zona. In tutta l’area si producevano circa 300.000 bottiglie e le imprese erano una sessantina. Nello stesso anno John Mariani – importatore di Lambrusco negli Usa di cui ero consulente – aveva maturato la decisione di investire in Italia i profitti dell’azienda americana e accettò un mio progetto per creare un’azienda a Montalcino. Io, dopo essermi liberato dei miei impegni, decisi che da quel momento quello sarebbe stato il mio lavoro. Creare una Cantina come non si era mai fatto in Italia. Dopo qualche mese arrivarono i primi quattro miliardi a cui ne seguiranno molti altri. I Mariani compravano in lire il Lambrusco che poi vendevano in dollari agli americani. A questo punto ci inviavano i dollari che venivano cambiati in lire per effettuare gli investimenti in Italia. Dal 1978 al 1984, il tasso di cambio tra dollaro e lira arrivò a superare le 2.000 lire con punte sino a 2.200, moltiplicando le nostre possibilità di impiego. Alla fine della campagna acquisti di terreni, Banfi divenne proprietaria di quasi 3.000 ettari di terreno con al centro il vecchio castello di Poggio alle Mura. L’azienda, di assoluta avanguardia, fu inaugurata alla presenza di cinquemila invitati, il 12 settembre 1984. La sfida era vinta».
- Un grande vino poco conosciuto, un marchio da lanciare, un mercato estero da costruire…
«Nel progetto di Banfi ci sono state idee vincenti e altre meno. Il fatto è che, pur essendo attrezzati per produrre un vino bianco a base di uve Moscato (il Bellagio), io avevo una fiducia granitica nel Brunello ed ero convinto che sarebbe prima o poi diventato un gigante dell’enologia mondiale. Nella metà degli anni Novanta però solo la Banfi aveva investito in modo tale da essere pronta all’esplosione della richiesta di Brunello. Le altre aziende lo hanno fatto dopo l’impennarsi della richiesta. Produrlo d’altra parte è difficile e costoso: basti pensare che bisogna aspettare almeno 10 anni prima di guadagnare qualcosa. Per questo tanti professionisti che hanno pensato di far soldi con un pezzo di terra a Montalcino, poi si sono trovati molto male. Il Brunello è un vino naturalmente elitario e bisogna essere ricchi perché coltivarlo necessita di continui investimenti. Sono stati e sono tutt’ora un vino e un marchio territoriale forti, in grado di superare tutte le avversità, dalla crisi del metanolo, a quella economica, a quella del Sangiovese. Se non fosse così oggi non si venderebbero 10 milioni di bottiglie».
- Le piccole aziende sono una componente strutturale del territorio non solo della terra del Brunello, ma anche dell’intero comparto vitivinicolo nazionale. Quale futuro per loro?
«Credo che sarà sempre più difficile. Prevedo una vera e propria moria di piccole e medie aziende, che non saranno in grado di sopportare il drammatico calo dei consumi. È molto complicato trovare nuovi clienti e, all’estero, la Cina è ancora lontana e la Russia soffre di alti e bassi. Il mondo visto dai padiglioni affollati del Vinitaly è un’illusione: la verità è che solo i grandi marchi continuano a vendere, gli altri sono in difficoltà. Il primo problema del vino italiano è proprio la polverizzazione delle imprese, tutte troppo piccole per poter competere e con tante, troppe etichette in rapporto a superfici vitate limitatissime. Solo pochi sanno essere piccoli e vincenti: non basta produrre un ottimo vino, bisogna anche saperlo vendere. Di Salvioni, piccolo ma prestigioso produttore di Brunello con La Cerbaiola, non ne nascono tutti i giorni. Altri problemi sono l’eccessivo provincialismo e la mancanza di una visione complessiva: non si può continuare a ripetere “io faccio il miglior vino del mondo”, senza avere un reale approccio con il mercato e non tenendo conto dei suoi bisogni e delle sue necessità».
- Delle mille attività di cui è stato protagonista negli ultimi 50 anni, quella di produttore di vino è forse la meno conosciuta, tanto che nel libro non c’è nemmeno un accenno. In definitiva anche lei ha una piccola impresa a Castagnole delle Lanze, in provincia di Asti: l’azienda Bel-Sit.
«Non è nelle mie abitudini andare a perorare la causa della mia azienda familiare. Sono molto legato a Bel-Sit perché nella cascina ci sono nato e ci sono rimasto sino a 25 anni. Ho 10 ettari di vigneto ma faccio solo due vini, le Barbera La Turna e Sichivej – la prima in acciaio, la seconda in barrique – mentre affido il Moscato per la spumantizzazione al mio amico Romano Dogliotti. Tutto qui».
- Ma è vero che sulla storia della Banfi ci doveva essere anche un’altra pubblicazione, per altro scritta per il mercato di lingua inglese, che però non vide mai la luce?
«Sì, è vero. Fu incaricato Edward Steinberg, un giornalista economico americano, appassionato di vino, che nel 1992 aveva pubblicato un libro intervista su Angelo Gaja, uscito in Italia nel 1996 per Slow Food con il titolo Sorì San Lorenzo – Angelo Gaja la nascita di un grande vino. Sulla scia del successo della pubblicazione, la Banfi gli chiese di scriverne uno sull’azienda. Lui fece un lavoro serio e completo, durato complessivamente tre anni, con decine di interviste, visite, incontri. Terminato di scrivere il giornalista presentò il testo a John Mariani il quale dopo averlo letto, gli chiese di eliminare tutte le parti che mi riguardavano. Io nel frattempo ero andato via dall’azienda. Steinberg si rifiutò di fare i tagli e così il libro non fu mai stampato. Stessa sorte capitò nel volume La Ricerca dell’eccellenza, dove scrissi un intero capitolo su 20 anni di studi e ricerche effettuati, sotto la mia direzione, in campagna e in cantina da studiosi e ricercatori in collaborazione con lo staff aziendale. Nel volume di 442 pagine io non sono mai citato».
- Adesso come sono i rapporti con i Mariani?
«L’atmosfera è tornata nuovamente amichevole. Del resto andare via, è stata una scelta meditata. Quella di Montalcino è stata veramente un’esperienza unica e irripetibile, che ha segnato la mia esistenza, e ora sono contento che le relazioni si siano normalizzate»
Incontro con un grande protagonista del mondo del vino: manager, enologo, presidente del Consorzio del Brunello e autore di un volume in cui racconta come ha reso famosa Montalcino, attraverso un’azienda da lui creata e un vino ormai considerato uno dei simboli dell’intera produzione nazionale. Un testo da conservare proprio come fosse una bottiglia preziosa.
Un volume da leggere tutto d’un fiato, questo Io e Brunello – Come portai Montalcino nel mondo di Ezio Rivella.
Pubblicato nel 2008 da Baldini Castoldi Dalai editore (€ 20), il libro, destinato a divenire un classico per gli appassionati, narra, attraverso le parole dell’autore di come un vino straordinario, prodotto in uno dei territori più belli della Toscana meridionale, sia diventato successo internazionale e uno dei simboli dell’intera produzione italiana. Una fama, quella del Brunello, fortemente intrecciata con la nascita dell’azienda Castello Banfi e con la vicenda, personale e professionale, del suo creatore, l’enologo Ezio Rivella. Personaggio di primo piano del vino italiano dell’ultimo mezzo secolo, nel giugno 1999, era stato protagonista di una lunga intervista di Pino Khail (Civiltà del bere, anno XXVI n° 6 – «Rivella: 40 anni di vino» ), nel corso della quale aveva anticipato buona parte dei temi poi sviluppati nel libro.
La storia inizia nel 1977 quando i fratelli italoamericani John e Harry Mariani, proprietari della Banfi e fortunati importatori del Lambrusco delle Cantine Riunite, decidono di investire in Italia affidandosi a Ezio Rivella, già da tempo loro consulente. Si trattava di una delega assoluta – noi ti mandiamo i soldi, per il resto fai tu – da cui è nata la più importante operazione imprenditoriale del settore vitivinicolo del dopoguerra, assolutamente unica nel suo genere, e anche per questo irripetibile, se non altro per la mole di investimenti effettuati, oltre 100 milioni dollari. Il Cavaliere (la nomina risale al 1985) ha lasciato la Banfi nel 2001, non senza qualche amarezza, dopo oltre 20 anni alla sua testa. È stato per due anni presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino, carica che ha ricoperto fino alla metà di giugno di quest’anno. Ecco cosa ci ha detto a proposito del suo libro in un incontro nella sua abitazione, nel centro di Roma. Il tono è quello consueto, autorevole, netto e deciso.
Pubblicato nel 2008 da Baldini Castoldi Dalai editore (€ 20), il libro, destinato a divenire un classico per gli appassionati, narra, attraverso le parole dell’autore di come un vino straordinario, prodotto in uno dei territori più belli della Toscana meridionale, sia diventato successo internazionale e uno dei simboli dell’intera produzione italiana. Una fama, quella del Brunello, fortemente intrecciata con la nascita dell’azienda Castello Banfi e con la vicenda, personale e professionale, del suo creatore, l’enologo Ezio Rivella. Personaggio di primo piano del vino italiano dell’ultimo mezzo secolo, nel giugno 1999, era stato protagonista di una lunga intervista di Pino Khail (Civiltà del bere, anno XXVI n° 6 – «Rivella: 40 anni di vino» ), nel corso della quale aveva anticipato buona parte dei temi poi sviluppati nel libro.
La storia inizia nel 1977 quando i fratelli italoamericani John e Harry Mariani, proprietari della Banfi e fortunati importatori del Lambrusco delle Cantine Riunite, decidono di investire in Italia affidandosi a Ezio Rivella, già da tempo loro consulente. Si trattava di una delega assoluta – noi ti mandiamo i soldi, per il resto fai tu – da cui è nata la più importante operazione imprenditoriale del settore vitivinicolo del dopoguerra, assolutamente unica nel suo genere, e anche per questo irripetibile, se non altro per la mole di investimenti effettuati, oltre 100 milioni dollari. Il Cavaliere (la nomina risale al 1985) ha lasciato la Banfi nel 2001, non senza qualche amarezza, dopo oltre 20 anni alla sua testa. È stato per due anni presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino, carica che ha ricoperto fino alla metà di giugno di quest’anno. Ecco cosa ci ha detto a proposito del suo libro in un incontro nella sua abitazione, nel centro di Roma. Il tono è quello consueto, autorevole, netto e deciso.
- Cavaliere, quali sono le circostanze che hanno portato alla nascita del libro?
«L’idea è stata del professor Alberto Mattiacci, oggi ordinario di Economia e gestione delle imprese alla Sapienza di Roma, nel dipartimento di Sociologia e comunicazione, e allora ordinario alla facoltà di Economia di Siena; è stato lui che, dopo uno studio sul territorio di Montalcino dove aveva evidenziato l’indiscussa leadership della Banfi nel lancio sia del Brunello sia di Montalcino nel mondo, mi ha proposto di scrivere un libro su questa esperienza ultraventennale. E così, dopo un’iniziale perplessità, accettai la proposta e incominciai a lavorarci con l’aiuto di mia figlia Virna».
- Io e Brunello infatti non è solo dedicato al vino e al territorio ma ricostruisce il contesto in cui è maturata la scelta di creare un’azienda d’ispirazione molto moderna rispetto ai canoni del tempo.
«Volevo allargare i miei orizzonti e nel 1957 lasciai Castagnole delle Lanze e il Piemonte per la Cantina Sociale Cooperativa di Marino, in provincia di Roma. Allora gli enopoli si occupavano del ciclo completo dell’uva, dal vino alla distillazione delle vinacce sino ai sottoprodotti come l’acido tartarico. In cantina l’enologo aggiustava tutto, i consumi pro capite erano gagliardi e lo sguardo delle aziende era essenzialmente rivolto al soddisfacimento della domanda interna».
- Lei scrive a proposito di Montalcino che era diventata “un chiodo fisso, una miscela che mi riesce difficile spiegare, tra il mito e la sfida”…
«A Montalcino, di cui avevo sempre sentito parlare, arrivai nel 1977. Rimasi alcuni giorni per capire. All’epoca, nonostante il mito del Brunello e della famiglia Biondi Santi, la viticoltura era ben poca cosa. La gran parte del vino era venduto sfuso, c’era una grande disponibilità di terreni abbandonati a basso prezzo (3-3,4 milioni di lire all’ettaro) e l’assenza quasi totale di investimenti per lanciare il vino e la zona. In tutta l’area si producevano circa 300.000 bottiglie e le imprese erano una sessantina. Nello stesso anno John Mariani – importatore di Lambrusco negli Usa di cui ero consulente – aveva maturato la decisione di investire in Italia i profitti dell’azienda americana e accettò un mio progetto per creare un’azienda a Montalcino. Io, dopo essermi liberato dei miei impegni, decisi che da quel momento quello sarebbe stato il mio lavoro. Creare una Cantina come non si era mai fatto in Italia. Dopo qualche mese arrivarono i primi quattro miliardi a cui ne seguiranno molti altri. I Mariani compravano in lire il Lambrusco che poi vendevano in dollari agli americani. A questo punto ci inviavano i dollari che venivano cambiati in lire per effettuare gli investimenti in Italia. Dal 1978 al 1984, il tasso di cambio tra dollaro e lira arrivò a superare le 2.000 lire con punte sino a 2.200, moltiplicando le nostre possibilità di impiego. Alla fine della campagna acquisti di terreni, Banfi divenne proprietaria di quasi 3.000 ettari di terreno con al centro il vecchio castello di Poggio alle Mura. L’azienda, di assoluta avanguardia, fu inaugurata alla presenza di cinquemila invitati, il 12 settembre 1984. La sfida era vinta».
- Un grande vino poco conosciuto, un marchio da lanciare, un mercato estero da costruire…
«Nel progetto di Banfi ci sono state idee vincenti e altre meno. Il fatto è che, pur essendo attrezzati per produrre un vino bianco a base di uve Moscato (il Bellagio), io avevo una fiducia granitica nel Brunello ed ero convinto che sarebbe prima o poi diventato un gigante dell’enologia mondiale. Nella metà degli anni Novanta però solo la Banfi aveva investito in modo tale da essere pronta all’esplosione della richiesta di Brunello. Le altre aziende lo hanno fatto dopo l’impennarsi della richiesta. Produrlo d’altra parte è difficile e costoso: basti pensare che bisogna aspettare almeno 10 anni prima di guadagnare qualcosa. Per questo tanti professionisti che hanno pensato di far soldi con un pezzo di terra a Montalcino, poi si sono trovati molto male. Il Brunello è un vino naturalmente elitario e bisogna essere ricchi perché coltivarlo necessita di continui investimenti. Sono stati e sono tutt’ora un vino e un marchio territoriale forti, in grado di superare tutte le avversità, dalla crisi del metanolo, a quella economica, a quella del Sangiovese. Se non fosse così oggi non si venderebbero 10 milioni di bottiglie».
- Le piccole aziende sono una componente strutturale del territorio non solo della terra del Brunello, ma anche dell’intero comparto vitivinicolo nazionale. Quale futuro per loro?
«Credo che sarà sempre più difficile. Prevedo una vera e propria moria di piccole e medie aziende, che non saranno in grado di sopportare il drammatico calo dei consumi. È molto complicato trovare nuovi clienti e, all’estero, la Cina è ancora lontana e la Russia soffre di alti e bassi. Il mondo visto dai padiglioni affollati del Vinitaly è un’illusione: la verità è che solo i grandi marchi continuano a vendere, gli altri sono in difficoltà. Il primo problema del vino italiano è proprio la polverizzazione delle imprese, tutte troppo piccole per poter competere e con tante, troppe etichette in rapporto a superfici vitate limitatissime. Solo pochi sanno essere piccoli e vincenti: non basta produrre un ottimo vino, bisogna anche saperlo vendere. Di Salvioni, piccolo ma prestigioso produttore di Brunello con La Cerbaiola, non ne nascono tutti i giorni. Altri problemi sono l’eccessivo provincialismo e la mancanza di una visione complessiva: non si può continuare a ripetere “io faccio il miglior vino del mondo”, senza avere un reale approccio con il mercato e non tenendo conto dei suoi bisogni e delle sue necessità».
- Delle mille attività di cui è stato protagonista negli ultimi 50 anni, quella di produttore di vino è forse la meno conosciuta, tanto che nel libro non c’è nemmeno un accenno. In definitiva anche lei ha una piccola impresa a Castagnole delle Lanze, in provincia di Asti: l’azienda Bel-Sit.
«Non è nelle mie abitudini andare a perorare la causa della mia azienda familiare. Sono molto legato a Bel-Sit perché nella cascina ci sono nato e ci sono rimasto sino a 25 anni. Ho 10 ettari di vigneto ma faccio solo due vini, le Barbera La Turna e Sichivej – la prima in acciaio, la seconda in barrique – mentre affido il Moscato per la spumantizzazione al mio amico Romano Dogliotti. Tutto qui».
- Ma è vero che sulla storia della Banfi ci doveva essere anche un’altra pubblicazione, per altro scritta per il mercato di lingua inglese, che però non vide mai la luce?
«Sì, è vero. Fu incaricato Edward Steinberg, un giornalista economico americano, appassionato di vino, che nel 1992 aveva pubblicato un libro intervista su Angelo Gaja, uscito in Italia nel 1996 per Slow Food con il titolo Sorì San Lorenzo – Angelo Gaja la nascita di un grande vino. Sulla scia del successo della pubblicazione, la Banfi gli chiese di scriverne uno sull’azienda. Lui fece un lavoro serio e completo, durato complessivamente tre anni, con decine di interviste, visite, incontri. Terminato di scrivere il giornalista presentò il testo a John Mariani il quale dopo averlo letto, gli chiese di eliminare tutte le parti che mi riguardavano. Io nel frattempo ero andato via dall’azienda. Steinberg si rifiutò di fare i tagli e così il libro non fu mai stampato. Stessa sorte capitò nel volume La Ricerca dell’eccellenza, dove scrissi un intero capitolo su 20 anni di studi e ricerche effettuati, sotto la mia direzione, in campagna e in cantina da studiosi e ricercatori in collaborazione con lo staff aziendale. Nel volume di 442 pagine io non sono mai citato».
- Adesso come sono i rapporti con i Mariani?
«L’atmosfera è tornata nuovamente amichevole. Del resto andare via, è stata una scelta meditata. Quella di Montalcino è stata veramente un’esperienza unica e irripetibile, che ha segnato la mia esistenza, e ora sono contento che le relazioni si siano normalizzate»