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Il passo dell'oca.
Il protezionismo alla rovescia degli illuminati imprenditori vinicoli italiani

di Giordano Belloni          
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°6)
No, non c’è alcun riferimento allo stile di marcia dell’esercito nazista, in questo titolo. Ma avete mai visto il comportamento dei simpatici volatili da fattoria? Tutti a seguire la direzione di chi sta davanti, non uno che sgarra e se ne va per fatti suoi. Zero iniziativa. Certo, in natura questo risponde a criteri di sicurezza per il branco e per i singoli esemplari che lo compongono, non c’è dubbio. E la sicurezza, si sa, è importante. Dev’essere a
una simile “legge di natura” che risponde anche l’italico agire: non sia mai, in questo (ex) eccellente Paese, che si osi, si tenti, si sperimenti una strada nuova che – pur esponendo a qualche rischio – possa farci dire “ecco, siamo arrivati tra i primi!”. Il passo dell’oca pare poi regola ferrea sul mercato enologico de noantri. Ed infatti i dati dell’Italian Wine & Food Institute per il 2011 dicono che, seppur con un calo del 6% in volume e del 10% in valore rispetto al 2010, il vino italiano va ancora forte sui mercati internazionali. “Ammazza, quanto semo gajardi!” diranno fregandosi le mani produttori grandi, medi e infiniterrimi del Paese là dove il sì suona. Però “mercati internazionali” è una definizione un tantino ampia… Quali sono questi mercati sui quali continua a splendere il sole dei colli fatali di Roma? Stati Uniti, Germania e Svizzera. I soliti. E fin qui va bene, mica diciamo che dobbiamo abbandonarli, quei mercati. È il mondo ricco di oggi. Solo che, ormai da anni, si diagnostica con assoluta certezza che il mondo di domani – proprio in termini di mercato – sarà guidato da Cina, Brasile e India, Paesi con un tasso di crescita tanto impressionante che i francesi ci si sono buttati a capofitto. Noi li abbiamo seguiti timidamente.
Anzi, in Cina non solo non li abbiamo anticipati, non solo non siamo concorrenziali. Abbiamo addirittura fatto marcia indietro: se nel 2001 la Repubblica Popolare rappresentava il 14% della quota di mercato dei vini italiani, dieci anni dopo è scesa al 6,5% (dati Nomisma). Meno della metà. Per carità, in fondo è vero che gli analisti internazionali dicono che a breve i cinesi saranno i primi consumatori di vino al mondo, ma ad oggi mica lo sono! E perché correre quel pur minimo margine di rischio dovendo lavorare per mettere in piedi nuovi canali di vendita? Perché consumare energie e studiare e capire e lavorare in un Paese così diverso e culturalmente lontano da noi? Che lo facciano i francesi, gli americani, gli australiani! Che se lo prendano loro il più grande e redditizio mercato del mondo! Noi siamo italiani, restiamo attaccati come zecche al cane su cui siamo saliti, tanto ora come ora ha ancora sangue da succhiare. E domani? Chi se ne importa del domani di cui – come ci ha insegnato il buon Lorenzo de’ Medici – non v’è certezza! Chi se ne importa di progetti a lungo termine, l’importante è che se magna oggi!
I francesi, in Cina, utilizzano importatori per irrorare il mercato con i loro vini? E noi restiamo attaccati all’idea antidiluviana delle fiere (leggasi Hong Kong, unica vera fiera vinicola dell’area, che manco è una città cinese), senza appoggi logistici sul territorio. Tanto noi abbiamo l’eccellenza, da mettere in visione nei bazar fieristici. Se ai cinesi questo non basta, che si arrangino! I transalpini sfondano i mercati creando un sistema-vino nazionale? E noi continuiamo sulla strada dell’iperframmentazione, dell’ognuno per fatti suoi, al massimo con i soliti consorzietti dallo scarsissimo potere operativo. Tanto vendiamo lo stesso in Usa e in Germania. L’Oggi. E chissenefrega.
Ma sì, lasciamo che lupi corrano per il mondo alla ricerca di “prede” nuove e diverse, vedrai se in questa corsa folle prima o poi non inciamperanno. Noi restiamo al sicuro dove si segue una routine di basso margine di profitto ma con un presente certo e garantito. Dove?
Nel cortile.
Qua.