di Raffaele Giannetti
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°5)
Sono passati circa due anni da quando ho buttato via l’apparecchio televisivo. Da due anni, dunque, non patisco più l’invadenza grossolana e volgare dello strumento e, soprattutto, di quanti vi appaiono. Innanzitutto è da provare quanto sia difficile disfarsi di tale apparecchio (ma è certo che disfarsi di catene e di ceppi non è mai stato facile. Anzi, è proprio quando cerchiamo di riacquistare la nostra libertà, che la
schiavitù ci si mostra senza alcun pudore).
In questi due anni mi sono disintossicato. La mia vita è cambiata in maniera davvero straordinaria, ma non insospettabile: la presenza arrogante – mentre scrivo il testo presente, esce dalla tastiera un «arrrogante» che definirei ‘divino’ – di quella voce a tutte le ore della giornata è esperienza, purtroppo, conosciuta.
Dovrei invitarvi, allora, a buttar la televisione dalla finestra? Per carità, non sia mai! Ognuno è padrone, in casa propria, di fare quello che vuole. La libertà, finalmente, è anche questo: c’è chi fuma, chi beve, chi si dedica allo sport, chi al giardinaggio; c’è chi suona uno strumento, chi si diverte a lanciarsi col paracadute, chi colleziona le farfalle, chi perfino la sabbia… c’è chi guarda la televisione.
Alcuni giorni fa (o forse settimane, per il lettore) ho dovuto sottopormi nuovamente al rito televisivo in casa d’altri; e in più occasioni. Ospitato da cari amici, non ho potuto sottrarmi alla pena (in questi casi le mogli hanno particolare responsabilità, come ben potete intuire).
Che cosa ho notato? L’insostenibile leggerezza del tutto? o meglio, del niente che ci viene propinato? Non solo. Di quella leggerezza, purtroppo – ed anche qui mi era uscito fuori un «purtropppo» esaltante –, ci rendiamo conto anche quando siamo costretti a subirla quotidianamente. Il fatto è che la televisione non ci influenza con i suoi contenuti (banali, e falsamente democratiche, sono le liti intorno alle presunte manipolazioni della nostra credulità), ma con la sua presenza; con la sua, mi verrebbe da dire, assente e distratta presenza.
La televisione mi è parsa invecchiata, ormai fuori tempo: dalla fraseologia falsamente casual alla gestione di tempi televisivi che potevano andare bene, forse, cinquant’anni fa; banalità senza freno, discorsi imposti, verità tagliate sulla bocca degli ospiti, intervistatori che non intervistano, ma che riempiono il tempo loro concesso con qualche battuta di dubbio gusto. Pure formalità esteriori. Ma ce ne accorgiamo. Insomma, il reality, altro dramma, è il chiaro prodotto di una esigenza di verità continuamente negata: dalla padella nella brace.
Si avverte bene che, in qualche momento della storia e in qualche strana maniera, la periferia – come può esserlo il mondo della provincia, queste nostre zone, lontane dai tumulti del potere – è più avanti del centro dell’impero.
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza, n°5)
Sono passati circa due anni da quando ho buttato via l’apparecchio televisivo. Da due anni, dunque, non patisco più l’invadenza grossolana e volgare dello strumento e, soprattutto, di quanti vi appaiono. Innanzitutto è da provare quanto sia difficile disfarsi di tale apparecchio (ma è certo che disfarsi di catene e di ceppi non è mai stato facile. Anzi, è proprio quando cerchiamo di riacquistare la nostra libertà, che la
schiavitù ci si mostra senza alcun pudore).
In questi due anni mi sono disintossicato. La mia vita è cambiata in maniera davvero straordinaria, ma non insospettabile: la presenza arrogante – mentre scrivo il testo presente, esce dalla tastiera un «arrrogante» che definirei ‘divino’ – di quella voce a tutte le ore della giornata è esperienza, purtroppo, conosciuta.
Dovrei invitarvi, allora, a buttar la televisione dalla finestra? Per carità, non sia mai! Ognuno è padrone, in casa propria, di fare quello che vuole. La libertà, finalmente, è anche questo: c’è chi fuma, chi beve, chi si dedica allo sport, chi al giardinaggio; c’è chi suona uno strumento, chi si diverte a lanciarsi col paracadute, chi colleziona le farfalle, chi perfino la sabbia… c’è chi guarda la televisione.
Alcuni giorni fa (o forse settimane, per il lettore) ho dovuto sottopormi nuovamente al rito televisivo in casa d’altri; e in più occasioni. Ospitato da cari amici, non ho potuto sottrarmi alla pena (in questi casi le mogli hanno particolare responsabilità, come ben potete intuire).
Che cosa ho notato? L’insostenibile leggerezza del tutto? o meglio, del niente che ci viene propinato? Non solo. Di quella leggerezza, purtroppo – ed anche qui mi era uscito fuori un «purtropppo» esaltante –, ci rendiamo conto anche quando siamo costretti a subirla quotidianamente. Il fatto è che la televisione non ci influenza con i suoi contenuti (banali, e falsamente democratiche, sono le liti intorno alle presunte manipolazioni della nostra credulità), ma con la sua presenza; con la sua, mi verrebbe da dire, assente e distratta presenza.
La televisione mi è parsa invecchiata, ormai fuori tempo: dalla fraseologia falsamente casual alla gestione di tempi televisivi che potevano andare bene, forse, cinquant’anni fa; banalità senza freno, discorsi imposti, verità tagliate sulla bocca degli ospiti, intervistatori che non intervistano, ma che riempiono il tempo loro concesso con qualche battuta di dubbio gusto. Pure formalità esteriori. Ma ce ne accorgiamo. Insomma, il reality, altro dramma, è il chiaro prodotto di una esigenza di verità continuamente negata: dalla padella nella brace.
Si avverte bene che, in qualche momento della storia e in qualche strana maniera, la periferia – come può esserlo il mondo della provincia, queste nostre zone, lontane dai tumulti del potere – è più avanti del centro dell’impero.