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Nel paese dell'anticocrazia

di Giordano Belloni          
(VAL D'ORCIA - terra d'eccellenza)
Mi capita di vedere in tv un servizio sull'abnorme proliferazione di aeroporti in Italia. Decine e decine di scali inutili, praticamente uno in ogni città, cittadina o paesone. Con conseguenti costi di gestione e spreco di denaro pubblico. 'Ohé, in una rubrica enologica si parla di aeroporti??' No, ma lo spunto per una riflessione mi viene di qui. Perché ok, gli scali vengono fatti per interessi politici e quant'altro, ma il
consenso della cittadinanza locale da dove nasce? Ecco, questo è il punto. Un Paese intero che soffre della sindrome Sringfield-Shelbyville. Chi non la conosce si aggiorni guardando qualche puntata de I Simpson.
La stessa sindrome è quella che anima, in Italia in generale ed in Toscana in particolare, il movimento della Ricostruzione della Storia, perlopiù attraverso il processo culturale – modernissimo nel XIX secolo, un tantino meno nel XXI – dell'esaltazione dell'antichità, conosciuto anche come “infoiamento per il vecchiume”. Il funzionamento è semplice: più qualcosa (un oggetto, un fenomeno ecc.) è antico, più è un vanto. Uno status symbol. Se il nonno trapassa pensateci bene, prima di farlo seppellire. Un tocco dell'imbalsamatore, ed il vostro salotto sarà impreziosito da un oggetto che vi farà fare un salto di qualità nella scala sociale.
Così ogni città, villaggio, borgo o quartiere gareggia con gli altri a colpi di antichità e, ovviamente, più l'antichità è antica, più è preziosa. Come fa un noto istituto di credito nato nel 1624 che si dichiara “banca dal 1472”. Avanti Cristo, probabilmente.
Ma veniamo a noi. Il Brunello di Montalcino, è dato certo, comprovato ed universalmente accettato, nasce nel corso dell’Ottocento (il secolo che parte dal 1800 e si conclude nel 1899, non il IX secolo, non ci provate!), eppure la smania di andarlo a scovare centinaia di anni addietro non è passata. C'è chi sbandiera documenti del '500 dove si parla di 'brunello' nei vigneti del circondario, fingendo di non sapere che 'brunello' è il nome che si dava al Sangiovese, che il medesimo era frammisto ad altri vitigni e che il vino si faceva pigiando qualsiasi tipo di uva si trovasse (anche bianca e rossa insieme). Insomma, che non esisteva neanche uno straccio di cultura enologica, in quel tempo. C'è poi chi trova lo scoop in altri documenti antichi, dove si parla dell’economia agricola del territorio. Peccato che tutti i territori avessero, almeno fino all'Ottocento, un'economia incentrata sull'agricoltura, il che non significa un'agricoltura di qualità, né specializzata, come è invece oggi. E, visto che la pretesa tradizione agricola ilcinese sottintende sempre il solito Brunello, volete proprio sapere qual era il prodotto principale del territorio, fino a pochi secoli fa? Il grano. Se poi vi sentite in grado di reggere lo shock, ecco l'altra verità scomoda: fin dal Medioevo la forza dell'economia di Montalcino non risiedeva nell'agricoltura, ma nell'artigianato e nel commercio, in particolare uno, quello delle calzature. Sorry.
D'accordo, in parte tutto questo garrire al vento della bandiera del Primato dell'Antichità e della Vocazione Agricola fa parte del “pacchetto Toscana”, sottoprodotto culturale preconfezionato per qualche gonzo turista anglosassone, per il quale la Toscana è 'l'antica terra contadina dove il tempo si è fermato'. Ripetiamo : antica (vero) terra (vero) contadina (falso). Bastano poche informazioni storiche per frantumare quest'idea balorda: la Toscana era terra di città, di protoidustria, di commercio. L'agricoltura era presente né più e né meno che in altri luoghi, d'Italia e d'Europa. Ma si promuove questo modello in quanto richiesto dal mercato del turismo, senza minimamente cercare di costruirlo, il mercato del turismo, ma semplicemente, comodamente, seguendo le mode e le idee bislacche del consumatore medio(cre). È giusto così? Se sì, allora prepariamoci tutti – da Nord a Sud – a ballare allo sfinimento la tarantella, nutrirci di sola pizza e salutarci con un 'ué, paisà!', perché è pressappoco questa l'immagine che hanno dell'Italia i gonzi turisti anglosassoni (d’ora in poi gta) di cui sopra.
E dunque mi si scuserà se io non credo che sia davvero giusto così. Perché si tratta di una strategia corta, miope. Ecco, in Italia siamo sempre un passo indietro rispetto al resto dei Paesi sviluppati: perché continuiamo ostinatamente ad imboccare le vie più facili, che non portano mai lontano. Il gta sbrodola all'idea dell'antico? E allora il nostro vino non può avere solo cento anni (come se fosse un demerito…), ne deve avere almeno quattrocento o cinquecento. Il gta va in sollucchero di fronte ad un marchio di denominazione? E allora giù doc e docg a pioggia, dal Barolo al Ronco, dal Taurasi all'Estathè. Basta sciacquarsi poi la bocca con le parole 'qualità', 'cultura' ed 'eccellenza' e il gioco è fatto. Infilandoci poi la 'tradizione', da far risalire possibilmente alla vigna di mosaica memoria, et voilà. Perché noi italiani siamo abituati ad accontentarci, perciò, anche se la massa mondiale dei consumatori continua a scegliere vini californiani e francesi, noi ci accontentiamo dei gta e amen. Siccome quell’antico/brahamino del Pattarsy/che per racconsolarsi/si fissa l’umbilico, scriveva il poeta Guido Gozzano, dal Piemonte vinicolo. Avrà avuto qualche ruolo nella storia enologica della regione? Mmm… no. È vissuto tra il XIX ed il XX secolo. Troppo recente.
Ecco, ora non vorrei apparire blasfemo, ma credo che sarebbe tempo di progredire un po’. Dove progredire significa cercare strategie nuove. Forme di promozione nuove. Marchi che leghino un prodotto ad un territorio, anziché ad un disciplinare di produzione che al consumatore non dice nulla? Beh, potrebbe essere un modo. Lavorare sulle caratteristiche specifiche di un vino e costruirci attorno una cultura del gusto, anziché affidarsi alla 'piacioneria omologata'? È una scelta rischiosa, certo, ma solo le scelte rischiose portano su quella via lunga e difficile che apre prospettive per il futuro, e non solo per il presente.
Senza alcun bisogno di aggrapparsi ad un passato che, molte volte, non è mai neanche esistito.