(di Raffaele Giannetti)
Presentazione di una nuova rubrica
Questa presentazione, che costituisce come al solito l’occasione per manifestare alcuni intendimenti, dice anche della fatica di partire e racconta, a modo suo, la paura del foglio bianco.
Il mondo dei nomi, del loro significato e della loro origine, è necessariamente pericoloso almeno per quanto è affascinante. Capiterà di percorrere strade inconsuete, ma capiterà anche, quando non fossero ben tracciate, di vederle sparire nel folto del bosco.
Ci guida comunque un’idea fondamentale: recuperare la logica e la psicologia che stanno alla base della nominazione, senza le quali ogni percorso astrattamente fonetico è, checché se ne dica, sempre arbitrario. Alcune soluzioni degli etimologisti, infatti, sembrano peccare di presunzione quando scartano a priori alcune relazioni formali evidenti. Spieghiamoci: nell’antichità – e non soltanto – bastava qualche somiglianza e, in barba alle leggi (ancora sconosciute) della lingua, si azzardavano associazioni del tutto immaginarie, che oggi chiamiamo «paretimologie». Ce ne sono delle più bizzarre e delle più divertenti (anche molto recenti). Le paretimologie, tuttavia, sono estremamente interessanti e non sono sempre da disprezzare, perché spesso ci svelano modi di pensare e di intendere la realtà che altrimenti non capiremmo. È un fatto, tanto per fare un esempio, che il solleone – il periodo più caldo e infuocato dell’anno, quando il sole picchia giù con tutta la sua violenza – non ha niente a che vedere, etimologicamente parlando, con il sole. Non mi sembra difficile cadere nel tranello.
La scienza etimologica, dunque, per guardarsi dai ciarlatani (magari dotati di buona fantasia), ha cominciato a guardare con sospetto e poi ha bandito dai suoi confini qualsiasi soluzione che sapesse anche lontanamente di paretimologico. Basta un sentore.
Dimenticavamo di dire che lo strano sole del solleone etimologico è il frutto di un sub latino: sub leonem, cioè ‘sotto il leone, sotto il segno del leone’.
Ora, però, se è vero che certe relazioni formali, del tutto esteriori e casuali, possono trarre in inganno, non è detto che siano tutte infide. Vediamone una.
Il vocabolario non prende nemmeno in considerazione – secondo noi del tutto irragionevolmente – un accostamento dei più «facili»: malva - malvagio (in francese mauve - mauvais). Malvagio assomiglia molto a malvaceo (e non mi si dica che l’uno non può produrre l’altro, perché allora c’è di mezzo la malafede o il partito preso). In uno dei lessici più frequentati della tarda latinità ci è capitato di incontrare addirittura un malvageus come ‘malvaceo’!
L’obiezione, stolida quanto saccente se viene da chi sa di queste cose, suona sempre più o meno così: «Ma che cosa può avere a che fare la malva con la malvagità? La malva, lo sanno tutti che fa bene!»
Dato che ne abbiamo già parlato lungamente altrove, ci limitiamo qui a un frettoloso cenno di spiegazione.
È evidente che la relazione non deve essere plausibile per noi, oggi, ma per chi l’abbia formulata (e in questo caso si risalirebbe molto indietro, almeno ai tempi in cui minister non significava ‘ministro’ e captivus non significava ‘cattivo’). La malva era – perché si tratta, questa volta, dei tempi delle antiche poleis greche – erba che cresceva lontano dalla città civile e colta (o almeno così era interpretata all’interno di un codice di relazioni botaniche che era analogo a quello delle relazioni sociali); era pianta silvestre, usata sì, già allora, in benèfici decotti o infusi, ma non «educabile», troppo molle e bionda, troppo melata e dolce, troppo lontana dalle durezze della vita sociale e delle sue leggi, troppo lontana dalla durezza del guerriero e della sua lancia, e dalla sua virile virtù. Troppo lontana, insomma, dai riti del cittadino per non assumere una connotazione negativa.
Ma lasciamo perdere.
Vediamo ora, piuttosto, quali erbe potremmo raccogliere, o quali sentieri percorrere, nei prossimi numeri della rivista. Difficilissimo scegliere: fra le pieghe (molte) dei miei promemoria spuntano delle parole e delle questioni che attirano la mia attenzione.
Leggo nomi come Piancastagnaio o Casteldelpiano, che mi incuriosiscono non tanto perché ci nascondono il loro senso, ma perché entrambi – dei quattro che conosco nel monte Amiata – contengono il piano. La vicenda è tipica: è naturale che fra i monti sia il piano a costituire un particolare degno di nota (e di nome), un po’ come un «viso pallido» fra i «pellirosse». Ma per continuare servirebbe un’indagine accurata.
Ora vengo attratto, leggendo il promemoria, da alcuni lemmi del nostro lessico famigliare e popolare, come l’aggettivo spurito (‘terso’, detto sempre del cielo), i nomi sdolso (‘sussulto improvviso’) e pulléra (‘piccolo ematoma puntiforme’), il verbo sconfinferare (‘andare a genio’) e infine dalla relazione, all’apparenza alquanto stravagante, fra deprecare (o imprecare) e sprecare.
Il tempo, spero, porterà consiglio.
Presentazione di una nuova rubrica
Questa presentazione, che costituisce come al solito l’occasione per manifestare alcuni intendimenti, dice anche della fatica di partire e racconta, a modo suo, la paura del foglio bianco.
Il mondo dei nomi, del loro significato e della loro origine, è necessariamente pericoloso almeno per quanto è affascinante. Capiterà di percorrere strade inconsuete, ma capiterà anche, quando non fossero ben tracciate, di vederle sparire nel folto del bosco.
Ci guida comunque un’idea fondamentale: recuperare la logica e la psicologia che stanno alla base della nominazione, senza le quali ogni percorso astrattamente fonetico è, checché se ne dica, sempre arbitrario. Alcune soluzioni degli etimologisti, infatti, sembrano peccare di presunzione quando scartano a priori alcune relazioni formali evidenti. Spieghiamoci: nell’antichità – e non soltanto – bastava qualche somiglianza e, in barba alle leggi (ancora sconosciute) della lingua, si azzardavano associazioni del tutto immaginarie, che oggi chiamiamo «paretimologie». Ce ne sono delle più bizzarre e delle più divertenti (anche molto recenti). Le paretimologie, tuttavia, sono estremamente interessanti e non sono sempre da disprezzare, perché spesso ci svelano modi di pensare e di intendere la realtà che altrimenti non capiremmo. È un fatto, tanto per fare un esempio, che il solleone – il periodo più caldo e infuocato dell’anno, quando il sole picchia giù con tutta la sua violenza – non ha niente a che vedere, etimologicamente parlando, con il sole. Non mi sembra difficile cadere nel tranello.
La scienza etimologica, dunque, per guardarsi dai ciarlatani (magari dotati di buona fantasia), ha cominciato a guardare con sospetto e poi ha bandito dai suoi confini qualsiasi soluzione che sapesse anche lontanamente di paretimologico. Basta un sentore.
Dimenticavamo di dire che lo strano sole del solleone etimologico è il frutto di un sub latino: sub leonem, cioè ‘sotto il leone, sotto il segno del leone’.
Ora, però, se è vero che certe relazioni formali, del tutto esteriori e casuali, possono trarre in inganno, non è detto che siano tutte infide. Vediamone una.
Il vocabolario non prende nemmeno in considerazione – secondo noi del tutto irragionevolmente – un accostamento dei più «facili»: malva - malvagio (in francese mauve - mauvais). Malvagio assomiglia molto a malvaceo (e non mi si dica che l’uno non può produrre l’altro, perché allora c’è di mezzo la malafede o il partito preso). In uno dei lessici più frequentati della tarda latinità ci è capitato di incontrare addirittura un malvageus come ‘malvaceo’!
L’obiezione, stolida quanto saccente se viene da chi sa di queste cose, suona sempre più o meno così: «Ma che cosa può avere a che fare la malva con la malvagità? La malva, lo sanno tutti che fa bene!»
Dato che ne abbiamo già parlato lungamente altrove, ci limitiamo qui a un frettoloso cenno di spiegazione.
È evidente che la relazione non deve essere plausibile per noi, oggi, ma per chi l’abbia formulata (e in questo caso si risalirebbe molto indietro, almeno ai tempi in cui minister non significava ‘ministro’ e captivus non significava ‘cattivo’). La malva era – perché si tratta, questa volta, dei tempi delle antiche poleis greche – erba che cresceva lontano dalla città civile e colta (o almeno così era interpretata all’interno di un codice di relazioni botaniche che era analogo a quello delle relazioni sociali); era pianta silvestre, usata sì, già allora, in benèfici decotti o infusi, ma non «educabile», troppo molle e bionda, troppo melata e dolce, troppo lontana dalle durezze della vita sociale e delle sue leggi, troppo lontana dalla durezza del guerriero e della sua lancia, e dalla sua virile virtù. Troppo lontana, insomma, dai riti del cittadino per non assumere una connotazione negativa.
Ma lasciamo perdere.
Vediamo ora, piuttosto, quali erbe potremmo raccogliere, o quali sentieri percorrere, nei prossimi numeri della rivista. Difficilissimo scegliere: fra le pieghe (molte) dei miei promemoria spuntano delle parole e delle questioni che attirano la mia attenzione.
Leggo nomi come Piancastagnaio o Casteldelpiano, che mi incuriosiscono non tanto perché ci nascondono il loro senso, ma perché entrambi – dei quattro che conosco nel monte Amiata – contengono il piano. La vicenda è tipica: è naturale che fra i monti sia il piano a costituire un particolare degno di nota (e di nome), un po’ come un «viso pallido» fra i «pellirosse». Ma per continuare servirebbe un’indagine accurata.
Ora vengo attratto, leggendo il promemoria, da alcuni lemmi del nostro lessico famigliare e popolare, come l’aggettivo spurito (‘terso’, detto sempre del cielo), i nomi sdolso (‘sussulto improvviso’) e pulléra (‘piccolo ematoma puntiforme’), il verbo sconfinferare (‘andare a genio’) e infine dalla relazione, all’apparenza alquanto stravagante, fra deprecare (o imprecare) e sprecare.
Il tempo, spero, porterà consiglio.