(di Riccardo Pizzinelli)
Nel leggere l’avvincente romanzo di Mattew Pearl, “Il ladro dei libri incompiuti”, che tratteggia una immagine vivida e suggestiva di quel fenomeno letterario e popolare che fu lo scrittore inglese Charles Dickens nella seconda metà dell’ottocento, mi è venuto in mente la che avevo letto da qualche parte del suo passaggio nella nostra zona durante uno dei suoi viaggi. Effettivamente mi ricordavo bene. Circa venticinque anni prima dei fatti narrati nel
romanzo di Pearl, nel 1846, era infatti stato pubblicato a Londra uno dei primi libri di Dickens, un resoconto del viaggio che negli anni 1844-45 aveva fatto in Italia, “Pictures from Italy”. All’epoca l’autore de “Le avventure di Oliver Twist”, del “Circolo Pickwick” e di “David Copperfield” (solo per citare i suoi romanzi più noti) non era ancora quella vera e propria “star” mondiale che divenne nei decenni successivi, ma era pur sempre una celebrità e quindi fa alquanto sorridere il racconto del suo passaggio in Valdorcia, per la strada di Roma, nell’inverno 1845 quando, certamente non riconosciuto, ebbe la ventura di fermarsi per dormire alla “Scala”, vicino a Gallina, in una di quelle locande che nei secoli avevano trovato sede lungo la “Strada Romana”, una delle vie di comunicazione e di pellegrinaggio più frequentate dal medioevo fino a quei tempi. La sua eccezionale capacità di descrivere e di rendere, ancor oggi, reale attraverso il racconto, l’immagine di quel misero ostello e della valle, oggi patrimonio mondiale dell’umanità, ed allora invece “ a region .... until it became as bare and desolate as any Scottish moors” (“sinché il paesaggio assunse i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi”, il che è tutto dire), ci consegna un quadro emozionante ed al tempo stesso tragico su quelle che, all’alba della modernità, erano le misere condizioni in cui le nostre generazioni passate hanno vissuto. Ma sentiamo dalle sue parole il racconto di quell’esperienza. (il testo in italiano è tratto da Attilio Brilli, “Viaggiatori stranieri in terra di Siena”, ed. Monte dei Paschi di Siena, De Luca Editore, Roma, 1986, Capitolo Da Siena e la via per Roma (1846), pp. 280-283):
Non appena avemmo visto queste cose [Dickens si riferisce al suo breve passaggio da Siena], proseguimmo di nuovo e percorrendo una campagna alquanto desolata (sino ad allora non c’erano state altro che viti, nient’altro che miseri stecchi in quella stagione dell’anno), ci fermammo come sempre, a mezzo della giornata, per un’ora o due, al fine di far riprendere fiato ai cavalli; ciò infatti rientra in tutti i contratti dei vetturini. Allorché riprendemmo il cammino, passammo per luoghi sempre più desolati e selvaggi, sinché il paesaggio assunse i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi. Subito dopo caduta la sera ci fermammo per dormire alla locanda di La Scala, una casupola assolutamente isolata, dove la famiglia sedeva attorno ad un bel focarone in cucina, acceso su una piattaforma di pietra alta dai tre ai quattro piedi e grande abbastanza per arrostirci un vitello. Al piano superiore ed unico della locanda, c’era una stamberga disordinata e sconnessa con una sola finestrina che dava su un cantone e quattro porte nere che s’aprivano in varie direzioni, in altrettante camere buie. Per non dire poi di un’altra grande porta nera che immetteva in una grande sala, anch’essa buia, con la scala che portava tutto ad un tratto attraverso una specie di trabocchetto sull’impiantito, le travi che si profilavano sul soffitto, una piccola dubbia folla acquattata in un angolo oscuro, e tutti i coltelli di casa sparsi in varie direzioni.
Il focolare era del più puro stile architettonico italiano, così che non ci si vedeva a un palmo dal naso per la gran fumea. La cameriera somigliava alla moglie di un brigante da commedia e sulla testa portava un analogo copricapo. I cani abbaiavano come matti; l’eco li ricambiava senza parsimonia; nel giro di dodici miglia non c’era altra dimora e qui le cose avevano un’aria fosca, da tagliagole.
Non erano certo migliorate dalle voci secondo le quali i ladri avevano avuto l’ardire di farsi vedere nei paraggi, nelle ultime notti, e di aver fermato la carrozza postale poco lontano da questo luogo. Si diceva che avessero teso un’imboscata ad alcuni viaggiatori non molto tempo prima, sul monte Vesuvio stesso, ed erano sulla bocca degli avventori di tutte le locande di strada. Ma poiché ciò non era affar nostro (visto che portavamo ben poco con noi da farci confiscare), ci divertimmo a trattare quell’argomento con grande allegria e in breve ci trovammo totalmente a nostro agio. Avemmo il pasto consueto in quella dimora solitaria, e quando ci si è fatta l’abitudine si tratta sempre di un buon pranzo. C’è una specie di intruglio con delle verdure e un po’ di riso dentro che è una specie di sintetico, arbitrario minestrone il quale tuttavia ha un ottimo sapore quando lo si è ben cosparso di formaggio e insaporito con sale e pepe a volontà. C’è il mezzo pollo con cui han fatto il brodo del minestrone. C’è il piccione in stufato con il ventriglio e i fegatini suoi e di altri volatili che gli fan da contorno. C’è un po’ di carne arrosto della misura di un piccolo rollè francese. C’è una scheggia di parmigiano e cinque melucce raggrinzite, aggroppate tutte assieme in un vassoino, l’una sull’altra, come se in questa maniera volessero sfuggire all’eventualità di essere mangiate. Poi c’è il caffè e quindi tutti a nanna. Non fate caso agli impiantiti di mattoni, né alle porte che s’apron da sole, né alle finestre che sbattono; non fate caso se vi han sistemato i cavalli nella stalla sotto il letto, così da presso che ogni volta in cui la bestia tossisce o sternuta, vi sveglia. Se siete di buon umore con la gente che incontrate, e discorrete con gusto e avete l’aria allegra, vi do la mia parola d’onore che sarete sempre sistemati bene, anche nella peggiore osteria italiana, e sempre nella maniera più gentile, così che potrete andare da un capo all’altro del paese (malgrado le dicerie che divulgano il contrario), senza che la vostra pazienza venga messa a dura prova. E questo succede specie quando vi procurate un buon fiasco di vino di Orvieto o di Montepulciano.
Quando lasciammo questo posto era una brutta mattinata e per dodici miglia procedemmo su una campagna sterile, petrosa e selvaggia come la Cornovaglia in Inghilterra, sinché giungemmo a Radicofani, dove c’è una locanda spettrale, fatta per i folletti; un tempo era stato un casino di caccia dei Granduchi di Toscana. E talmente un succedersi di anditi storti e di nude stamberghe, che quell’unica dimora può aver dato origine a tutti i racconti di fantasmi e di assassini che sono stati scritti, A Genova ci sono alcuni orrendi, vetusti palazzi, uno in particolare non dissimile da questo, almeno di fuori; ma qui, in questa locanda di Radicofani, c’è un tale frusciar di vento, un cigolio continuo, un brulichio, un crepitio, un aprirsi di porte, uno scalpiccio per le scale, quale non ho udito in alcun altro posto. La cittadina, così com’è, sovrasta la casa dal fianco della collina di fronte. Quelli del posto sono tutti mendicanti e non appena scorgono una carrozza che s’avvicina, gli calano attorno come uccelli da preda.
Quando raggiungemmo il passo montano, che si trova oltre quel luogo, il vento (come ci avevano preavvertito giù alla locanda) era così tremendo che fummo costretti a far sortire l’altra mia “metà” dalla carrozza, per evitare che ella fosse portata via dal vento, carrozza e tutto, e ad appenderci a quest’ultima, dalla parte investita dal vento (e nel migliore dei modi, risa permettendo) per non farla rotolare Dio sa dove. Quanto a vento, quella bufera di terra avrebbe potuto competere con una tempesta dell’Atlantico con ottima possibilità di riuscire vittoriosa. Il vento gelido scendeva spazzando enormi botri in una catena di monti sulla destra; così che guardammo con effettivo spavento ad un vasto acquitrino a manca e ci accorgemmo che non c’era il minimo cespuglio, non un arbusto a cui afferrarsi. Era come se, una volta sollevati dal vento, dovessimo essere trasportati al mare o nell’etere. C’era la neve e c’erano la grandine, la pioggia, i lampi e i tuoni; e c’erano masse rotolanti di bruma che veleggiavano a velocità incredibili. Era buio, spaventoso, solitario al massimo grado; c’erano montagne su montagne, velate da colleriche nubi; e c’era ovunque una tale foga piena d’ira, rapida, violenta, tumultuosa, da rendere la scena indicibimente grandiosa ed eccitante.
Una prima considerazione, direi scontata. Come cambiano i tempi! Dov’è quella valle? Dove sono quei paesaggi? Quella famiglia di fronte al camino, quelle stalle, quelle carrozze, quei mendicanti? E a prima vista è proprio così.
Ma se andiamo a vedere meglio, se cerchiamo sotto all’esteriorità del racconto, forse viene fuori un panorama un po’ meno scontato. Siamo proprio sicuri che l’uomo, e la valdorcia, siano così cambiati in questi ultimi secoli ? Fisicamente lo abbiamo visto, certamente (il vento ed il paesaggio spoglio ci sono sempre), la sensazione di chi la percorre in auto è di sicuro diversa da chi la percorreva in una scomoda carrozza (oggi il solo pensiero è massacrante), ma lo spirito del viaggiatore, la sua volontà di conoscere i nostri territori, il vivere con piacere anche qualche scomodità di soggiorno, l’accoglienza della popolazione, altrettanto certamente no.
E questa è la seconda riflessione. Non siamo stati noi, i contemporanei, ad inventare il turismo e la visita della valle? In epoche passate, ormai dimenticate, la Valdorcia è già stata teatro di un flusso “turistico”, senz’altro più limitato ma, al tempo stesso, forse più qualificato. Tutti quelli che nell’ultimo millennio, e forse anche prima, si sono recati a Roma, Papi, Re, Imperatori, Santi e chi più ne ha più ne metta, sono passati di qui. Qualcuno ha lasciato pagine indimenticabili come quelle di Dickens, altri hanno portato nella tomba le immagini spettrali dei calanchi, delle distese sassose e dell’Orcia in secca, ma tutti, è certo, sono rimasti impressionati dall’unicità e dalla originalità di un ambiente particolare. Noi lo abbiamo solo ereditato e, fatalmente, lo lasceremo ad altri. Per questo è meglio riflettere sul passato, capire che molto è già stato scritto, molti errori sono già stati fatti, forse sulle esperienze altrui potremo costruire meglio il futuro della Valdorcia.
Nel leggere l’avvincente romanzo di Mattew Pearl, “Il ladro dei libri incompiuti”, che tratteggia una immagine vivida e suggestiva di quel fenomeno letterario e popolare che fu lo scrittore inglese Charles Dickens nella seconda metà dell’ottocento, mi è venuto in mente la che avevo letto da qualche parte del suo passaggio nella nostra zona durante uno dei suoi viaggi. Effettivamente mi ricordavo bene. Circa venticinque anni prima dei fatti narrati nel
romanzo di Pearl, nel 1846, era infatti stato pubblicato a Londra uno dei primi libri di Dickens, un resoconto del viaggio che negli anni 1844-45 aveva fatto in Italia, “Pictures from Italy”. All’epoca l’autore de “Le avventure di Oliver Twist”, del “Circolo Pickwick” e di “David Copperfield” (solo per citare i suoi romanzi più noti) non era ancora quella vera e propria “star” mondiale che divenne nei decenni successivi, ma era pur sempre una celebrità e quindi fa alquanto sorridere il racconto del suo passaggio in Valdorcia, per la strada di Roma, nell’inverno 1845 quando, certamente non riconosciuto, ebbe la ventura di fermarsi per dormire alla “Scala”, vicino a Gallina, in una di quelle locande che nei secoli avevano trovato sede lungo la “Strada Romana”, una delle vie di comunicazione e di pellegrinaggio più frequentate dal medioevo fino a quei tempi. La sua eccezionale capacità di descrivere e di rendere, ancor oggi, reale attraverso il racconto, l’immagine di quel misero ostello e della valle, oggi patrimonio mondiale dell’umanità, ed allora invece “ a region .... until it became as bare and desolate as any Scottish moors” (“sinché il paesaggio assunse i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi”, il che è tutto dire), ci consegna un quadro emozionante ed al tempo stesso tragico su quelle che, all’alba della modernità, erano le misere condizioni in cui le nostre generazioni passate hanno vissuto. Ma sentiamo dalle sue parole il racconto di quell’esperienza. (il testo in italiano è tratto da Attilio Brilli, “Viaggiatori stranieri in terra di Siena”, ed. Monte dei Paschi di Siena, De Luca Editore, Roma, 1986, Capitolo Da Siena e la via per Roma (1846), pp. 280-283):
Non appena avemmo visto queste cose [Dickens si riferisce al suo breve passaggio da Siena], proseguimmo di nuovo e percorrendo una campagna alquanto desolata (sino ad allora non c’erano state altro che viti, nient’altro che miseri stecchi in quella stagione dell’anno), ci fermammo come sempre, a mezzo della giornata, per un’ora o due, al fine di far riprendere fiato ai cavalli; ciò infatti rientra in tutti i contratti dei vetturini. Allorché riprendemmo il cammino, passammo per luoghi sempre più desolati e selvaggi, sinché il paesaggio assunse i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi. Subito dopo caduta la sera ci fermammo per dormire alla locanda di La Scala, una casupola assolutamente isolata, dove la famiglia sedeva attorno ad un bel focarone in cucina, acceso su una piattaforma di pietra alta dai tre ai quattro piedi e grande abbastanza per arrostirci un vitello. Al piano superiore ed unico della locanda, c’era una stamberga disordinata e sconnessa con una sola finestrina che dava su un cantone e quattro porte nere che s’aprivano in varie direzioni, in altrettante camere buie. Per non dire poi di un’altra grande porta nera che immetteva in una grande sala, anch’essa buia, con la scala che portava tutto ad un tratto attraverso una specie di trabocchetto sull’impiantito, le travi che si profilavano sul soffitto, una piccola dubbia folla acquattata in un angolo oscuro, e tutti i coltelli di casa sparsi in varie direzioni.
Il focolare era del più puro stile architettonico italiano, così che non ci si vedeva a un palmo dal naso per la gran fumea. La cameriera somigliava alla moglie di un brigante da commedia e sulla testa portava un analogo copricapo. I cani abbaiavano come matti; l’eco li ricambiava senza parsimonia; nel giro di dodici miglia non c’era altra dimora e qui le cose avevano un’aria fosca, da tagliagole.
Non erano certo migliorate dalle voci secondo le quali i ladri avevano avuto l’ardire di farsi vedere nei paraggi, nelle ultime notti, e di aver fermato la carrozza postale poco lontano da questo luogo. Si diceva che avessero teso un’imboscata ad alcuni viaggiatori non molto tempo prima, sul monte Vesuvio stesso, ed erano sulla bocca degli avventori di tutte le locande di strada. Ma poiché ciò non era affar nostro (visto che portavamo ben poco con noi da farci confiscare), ci divertimmo a trattare quell’argomento con grande allegria e in breve ci trovammo totalmente a nostro agio. Avemmo il pasto consueto in quella dimora solitaria, e quando ci si è fatta l’abitudine si tratta sempre di un buon pranzo. C’è una specie di intruglio con delle verdure e un po’ di riso dentro che è una specie di sintetico, arbitrario minestrone il quale tuttavia ha un ottimo sapore quando lo si è ben cosparso di formaggio e insaporito con sale e pepe a volontà. C’è il mezzo pollo con cui han fatto il brodo del minestrone. C’è il piccione in stufato con il ventriglio e i fegatini suoi e di altri volatili che gli fan da contorno. C’è un po’ di carne arrosto della misura di un piccolo rollè francese. C’è una scheggia di parmigiano e cinque melucce raggrinzite, aggroppate tutte assieme in un vassoino, l’una sull’altra, come se in questa maniera volessero sfuggire all’eventualità di essere mangiate. Poi c’è il caffè e quindi tutti a nanna. Non fate caso agli impiantiti di mattoni, né alle porte che s’apron da sole, né alle finestre che sbattono; non fate caso se vi han sistemato i cavalli nella stalla sotto il letto, così da presso che ogni volta in cui la bestia tossisce o sternuta, vi sveglia. Se siete di buon umore con la gente che incontrate, e discorrete con gusto e avete l’aria allegra, vi do la mia parola d’onore che sarete sempre sistemati bene, anche nella peggiore osteria italiana, e sempre nella maniera più gentile, così che potrete andare da un capo all’altro del paese (malgrado le dicerie che divulgano il contrario), senza che la vostra pazienza venga messa a dura prova. E questo succede specie quando vi procurate un buon fiasco di vino di Orvieto o di Montepulciano.
Quando lasciammo questo posto era una brutta mattinata e per dodici miglia procedemmo su una campagna sterile, petrosa e selvaggia come la Cornovaglia in Inghilterra, sinché giungemmo a Radicofani, dove c’è una locanda spettrale, fatta per i folletti; un tempo era stato un casino di caccia dei Granduchi di Toscana. E talmente un succedersi di anditi storti e di nude stamberghe, che quell’unica dimora può aver dato origine a tutti i racconti di fantasmi e di assassini che sono stati scritti, A Genova ci sono alcuni orrendi, vetusti palazzi, uno in particolare non dissimile da questo, almeno di fuori; ma qui, in questa locanda di Radicofani, c’è un tale frusciar di vento, un cigolio continuo, un brulichio, un crepitio, un aprirsi di porte, uno scalpiccio per le scale, quale non ho udito in alcun altro posto. La cittadina, così com’è, sovrasta la casa dal fianco della collina di fronte. Quelli del posto sono tutti mendicanti e non appena scorgono una carrozza che s’avvicina, gli calano attorno come uccelli da preda.
Quando raggiungemmo il passo montano, che si trova oltre quel luogo, il vento (come ci avevano preavvertito giù alla locanda) era così tremendo che fummo costretti a far sortire l’altra mia “metà” dalla carrozza, per evitare che ella fosse portata via dal vento, carrozza e tutto, e ad appenderci a quest’ultima, dalla parte investita dal vento (e nel migliore dei modi, risa permettendo) per non farla rotolare Dio sa dove. Quanto a vento, quella bufera di terra avrebbe potuto competere con una tempesta dell’Atlantico con ottima possibilità di riuscire vittoriosa. Il vento gelido scendeva spazzando enormi botri in una catena di monti sulla destra; così che guardammo con effettivo spavento ad un vasto acquitrino a manca e ci accorgemmo che non c’era il minimo cespuglio, non un arbusto a cui afferrarsi. Era come se, una volta sollevati dal vento, dovessimo essere trasportati al mare o nell’etere. C’era la neve e c’erano la grandine, la pioggia, i lampi e i tuoni; e c’erano masse rotolanti di bruma che veleggiavano a velocità incredibili. Era buio, spaventoso, solitario al massimo grado; c’erano montagne su montagne, velate da colleriche nubi; e c’era ovunque una tale foga piena d’ira, rapida, violenta, tumultuosa, da rendere la scena indicibimente grandiosa ed eccitante.
Una prima considerazione, direi scontata. Come cambiano i tempi! Dov’è quella valle? Dove sono quei paesaggi? Quella famiglia di fronte al camino, quelle stalle, quelle carrozze, quei mendicanti? E a prima vista è proprio così.
Ma se andiamo a vedere meglio, se cerchiamo sotto all’esteriorità del racconto, forse viene fuori un panorama un po’ meno scontato. Siamo proprio sicuri che l’uomo, e la valdorcia, siano così cambiati in questi ultimi secoli ? Fisicamente lo abbiamo visto, certamente (il vento ed il paesaggio spoglio ci sono sempre), la sensazione di chi la percorre in auto è di sicuro diversa da chi la percorreva in una scomoda carrozza (oggi il solo pensiero è massacrante), ma lo spirito del viaggiatore, la sua volontà di conoscere i nostri territori, il vivere con piacere anche qualche scomodità di soggiorno, l’accoglienza della popolazione, altrettanto certamente no.
E questa è la seconda riflessione. Non siamo stati noi, i contemporanei, ad inventare il turismo e la visita della valle? In epoche passate, ormai dimenticate, la Valdorcia è già stata teatro di un flusso “turistico”, senz’altro più limitato ma, al tempo stesso, forse più qualificato. Tutti quelli che nell’ultimo millennio, e forse anche prima, si sono recati a Roma, Papi, Re, Imperatori, Santi e chi più ne ha più ne metta, sono passati di qui. Qualcuno ha lasciato pagine indimenticabili come quelle di Dickens, altri hanno portato nella tomba le immagini spettrali dei calanchi, delle distese sassose e dell’Orcia in secca, ma tutti, è certo, sono rimasti impressionati dall’unicità e dalla originalità di un ambiente particolare. Noi lo abbiamo solo ereditato e, fatalmente, lo lasceremo ad altri. Per questo è meglio riflettere sul passato, capire che molto è già stato scritto, molti errori sono già stati fatti, forse sulle esperienze altrui potremo costruire meglio il futuro della Valdorcia.