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lunedì 18 aprile 2011

Considerazioni sulla cerealicoltura
in Val d'Orcia

(di Alberto Cappelli)
Ho letto con molta attenzione e altrettanta preoccupazione l'articolo di Giorgio Scheggi sulla probabilità, non tanto remota, della fine della cerealicoltura in Val d' Orcia, per i prezzi bassi e per di più ballerini, che gli agricoltori riescono a strappare ai commercianti.
Come sempre più spesso accade, il tutto ad opera di speculazioni mondiali.
Viene da chiedersi se tutto questo sia giusto, e la
risposta non può che essere negativa per più ragioni.
Intanto va subito chiarito che il lavoro, le fatiche, i capitali investiti nella cerealicoltura come in qualsiasi altra attività umana, devono essere giustamente rimunerati e non si può lavorare senza ricavarne un giusto guadagno. In caso contrario ne va della sopravvivenza delle aziende e delle attività in genere e anche della dignità di coloro che vi si impegnano.
Per questa valle i prezzi non remunerativi dei cereali, possono decretarne la fine, perché per i suoi terreni, come per il suo clima, vale a dire per tutto quell'insieme di specificità - che i vignaioli, come i coltivatori di caffè, di tè, ecc., indicano con il termine terroir - è nella cerealicoltura che ha una sua vocazione originaria, da millenni.
Solo in seguito è venuto anche il resto: la viticoltura, l'olivicoltura, la pastorizia, tutte di pregio.
L'altra ragione risiede nella storia e, come vedremo, anche nella preistoria della Val d' Orcia.
I bioarcheologi hanno rinvenuto nella Cava Barbieri presso Pienza, i resti di semi carbonizzati dei generi Triticum, quali il T. monococcum (o farro piccolo, che è ritenuto il primo cereale addomesticato dall'uomo circa 7500 anni fa. Ha un basso tenore di glutine – circa il 7% -, è panificabile, ma è a scarsa lievitazione), il T. dicoccum (parente stretto del grano, è detto anche farro o farro medio), il T. aestivum L., subs compactum (grano tenero adatto alla panificazione), l'Hordeum vulgare (orzo), l' avena.
Vi sono stati rinvenuti anche semi di leguminose, di frutti quali la Vitis vinifera silvestri e il rubus (rovo), coltivati in zona nel Neolitico superiore(1).
Nella stessa cava si sono ritrovati anche semi dell'età del Bronzo Medio, quali fra i cereali (oltre a quelli visti sopra) il Panicum miliaceo, fra le leguminose anche la Vicia faba var. minor e fra gli alberi da frutto anche il cornus mas (corniolo)(2).
E' bene ricordare, per passare dalla preistoria alla storia, che nel XIII° secolo, a Spedaletto ebbe sede un'importante grancìa dell'Ospedale di Siena, nei cui terreni si coltivavano prevalentemente i cerali per rifornire l'importante istituzione senese.
Notoriamente i cereali da granella si suddividono in tre gruppi: quello detto del frumento, che comprende il frumento stesso, la segale, l'orzo e l'avena; l'altro detto del granturco, che comprende il mais, il sorgo, il miglio e il panico; e, infine, il gruppo del riso.
In Val d' Orcia si coltiva prevalentemente il Triticum durum (grano duro, ricco di glutine e per questa sua qualità la semola delle sue farine viene impiegata nella fabbricazione della pasta), mentre sempre più scarsa – anche per la scarsa remunerazione - è la coltivazione del T. vulgare o grano tenero, meno ricco di glutine e più adatto alla panificazione.
Perché in Val d' Orcia non si abbandoni la coltivazione del grano duro, oltre a chiamare a difesa le istituzioni come suggerisce lo Scheggi, occorre anche chiedere agli agricoltori di tentare la via dell'innovazione per affrancarsi dalle speculazioni mercantili.
Lo scopo sarà raggiunto solo se verrà percorsa la stessa strada che da tempo hanno intrapresa i viticoltori, che non si limitano a coltivare la vite e a raccogliere l'uva, ma la trasformano in vino che poi commercializzano.
Questa suggerimento può sembrare pura utopia, ma questa esperienza è già stata fatta da aziende agrarie a indirizzo cerealicolo, di altre zone ove si coltiva il grano duro, dal pisano alle Marche, per restare nell'Italia Centrale;.alcune di esse hanno riportato in auge vecchie varietà di grano duro coltivate sino a 60 e 80 anni fa e con la farina (o meglio, con la semola) da esse ricavata, lavorata in piccoli impianti aziendali, producono pregiate paste alimentari commercializzate fin oltre Oceano!
Non è sufficiente, però, possedere un'ottima materia prima, perché occorre impadronirsi delle tecniche per le successive lavorazioni, formando gli addetti, oltre che dei sistemi di vendita per imporre la pasta prodotta sui mercati italiani e stranieri, facendosi aiutare anche dai panorami dello stupendo territorio.
È nella fase dell'apprendimento alla produzione e ai moderni sistemi di vendita che è necessario l'insostituibile supporto delle istituzioni, da quelle locali a quelle regionali, che per prima cosa devono studiare la fattibilità del progetto, lo devono sperimentare e, se va bene, lo supportino in tutte le sue fasi e, qualora all'inizio si ritenga necessario, anche con aiuti economici.
Dopodiché occorrerà che i produttori si diano un disciplinare da rispettare e richiedano alle autorità comunitarie il riconoscimento IGP (Indicazione Geografica Protetta).
Non so se questa idea può essere attuata: a me interessa solo proporla all'attenzione e al dibattito di tutti gli interessati, perché non si creino ulteriori difficoltà alla Val d' Orcia.
  1. Tra 7300 e 6500 anni fa (VI°-V°) millegno a.C., accertato al radiocarbonio C14. 
  2. Lorenzo Costantini - “Aspetti biorcheologici – Italia Centro-Meridionale” - Accademia dei Georgofili – Storia dell'Agricoltura Italiana – Vol. I° - L'Eta' Antica – Preistoria-Edizioni Polistampa, Firenze, 2002.

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